domenica 15 luglio 2012

GENOVA 2001-2012


Con le pesantissime condanne per devastazione e saccheggio inflitte, venerdì scorso, ai manifestanti che presero parte agli scontri del G8 di Genova nel luglio del 2001, si può finalmente considerare conclusa quella tragica pagina della nostra storia recente.
Penso che per la mia generazione il G8 di Genova sia assimilabile a quanto aveva rappresentato, per la generazione dei miei genitori, la strage di piazza Fontana: la perdita dell'innocenza. Uno shock emotivo tremendo, l'evento che ti catapulta, brutalmente, nella realtà. Il diciottenne del 2001 capì in quell'occasione che partecipare ad una manifestazione politica poteva voler dire sputare i denti, finire in coma o addirittura non tornare più a casa. Improvvisamente, il ragazzino progressista ed alternativo scopriva che l'impegno politico non era una partita della Playstation e che quel potere che lui vagheggiava di abbattere con una “rivoluzione popolare” era di fatto pronto a passare sopra di lui con l'inesorabilità e la spietatezza di un carro armato. Io stesso scoprii che la forza delle idee, il dialogo, la capacità di parlare e ascoltare gli altri erano solo delle favolette con cui ero ero stato educato: Genova insegnava a me e ai miei coetanei che il Potere è qualcosa di talmente grande da essere insormontabile, inscalfibile dal tuo solo coraggio, dai tuoi buoni propositi o dai suoi sogni.
Non partecipai personalmente alle manifestazioni anti-G8. L'ho tuttavia vissuto minuto per minuto, nelle dirette televisive durante i due giorni di scontri e, ancora di più nelle centinaia di ore passate a visionare documentari, inchieste, filmati negli undici anni successivi.
Per quanto allora mi definissi in tutti i sensi un “No-Global”, decisi di non andare a Genova perché alla vigilia era dato per scontato che si sarebbero verificati degli scontri. Non fu tuttavia la paura a convincermi di restare a casa, ma la voglia di non essere associato a quelle orde di autonomi che anziché sfilare marciando in stile Armata Rossa (come sostenevo si dovesse fare), si divertivano a sfasciare le vetrine dei negozi e i finestrini delle auto in sosta. Anzi, nella mia innocenza, ero sentimentalmente combattuto: pur con poche e confuse idee politiche, ero contrario al vertice e alla globalizzazione, ma allo stesso tempo mi piaceva l'idea che i vandali venissero riempiti di botte dalle forze dell'ordine. Non fu quindi la paura di prenderle a farmi stare a casa, ma la vergogna di essere associato ai delinquenti. Questo perché, nella bambagia in cui ero fino ad allora vissuto, l'idea di poter essere pestato senza aver fatto nulla non passava minimamente nella mia testa di diciannovenne. Genova fu quindi un brutto risveglio, assimilabile per molti versi a quello che ebbero i sessantottini quando esplose la Banca nazionale dell'Agricoltura a Milano.
I risvolti, per la fortuna mia e della mia generazione, furono molto meno pesanti: dopo Genova il potere decise che non era il caso di riproporre una guerra civile come aveva fatto negli anni Settanta, quando moltissimi giovani, intuendo la verità dietro alla strage di piazza Fontana, avevano dato sfogo alla propria rabbia dandosi al terrorismo, in questo abilmente fomentati e manipolati da prezzolati agenti provocatori. Per nostra fortuna, la rabbia e la voglia di vendetta della mia generazione trovarono altre valvole di sfogo e non fummo indotti a commettere lo stesso errore.
Questa lunga premessa autobiografica, nella quale qualcuno si riconoscerà, era necessaria per poter spiegare con quale stato d'animo posso commentare l'evento. Non ho mai sentito l'odore dei lacrimogeni, non ho mai dovuto scappare da una carica, i miei amici e conoscenti che erano stati a Genova tornarono sconvolti ma nessuno di loro aveva subito ferite. Passai tuttavia due giorni di angoscia perché mentre in tv vedevo la diretta di una carneficina che non si sapeva come sarebbe finita, i cellulari non funzionavano e non potevo fare altro che restare in contatto con la madre di un mio carissimo amico per darci conforto reciproco. Non ero a Genova quindi, ma a modo mio il G8 l'ho vissuto e resterà per sempre nei miei ricordi.

L'ANTEFATTO
Passati undici anni posso ormai tentare di trarre un bilancio dell'evento, il più possibile distaccato. Oggi i No Global sono praticamente spariti a cominciare, per fortuna, dai loro leader. Io stesso, nel rivedere i filmati dell'epoca, provo un po' di imbarazzo e non riesco più a sopportare, come facevo allora, quei numerosi pseudo-hippie del quale il movimento era infestato, che giocavano coi fuochi, suonavano i bonghi e, comperti di rasta, parlavano di pace e fratellanza. Anzi adesso li odio proprio. Stessa cosa vale per i catto-comunisti, i rifondati, i disobbedienti e autonomi vari. Non è questo il momento di affrontare la questione dei contenuti proposti dal movimento (potrei farlo in un altro post) del quale oggi critico l'immaturità e l'incoerenza, ma al quale devo comunque riconoscere di averci, per molti versi, azzeccato.
Neanche ai fini della mia analisi avrebbe senso ricomporre i tasselli che costituivano il mosaico del movimento. La mia deformazione professionale mi porta, come sempre, a ricostruire sommariamente le tappe e la sequenza cronologica che trovò in Genova la sua chiosa finale.
Il movimento No Global veniva anche definito “popolo di Seattle” perché fu proprio nella città dell'Oregon che fece la sua prima apparizione, durante il vertice dell'organizzazione internazionale del commercio (WTO), il 30 novembre del 1999. Alle manifestazioni di protesta che accompagnarono il vertice apparvero, da subito, i black bloc e ci furono numerosi incidenti.
L'anno successivo, il movimento contestò il vertice della Banca Mondiale a Praga, quello tra i ministri delle finanze e i governatori delle banche nazionali dell'UE a Monreal in Spagna, il Convegno Europeo di Nizza (nell'occasione alla manifestazione parteciparono 70.000 persone).
Se ognuna di queste manifestazioni era stata funestata da scontri tra esponenti del movimento e la polizia, il 2001 segnò una vera e propria escalation in partecipazione popolare e violenza. In gennaio i No Global protestarono contro il Forum Economico Mondiale di Davos e diedero vita al contemporaneo Forum Sociale mondiale a Porto Alegre. In marzo, circa 20.000 manifestanti si opposero al Global Forum sull'e-government riunitosi a Napoli, in aprile assediarono i presidenti delle Americhe in Quebec, a giugno fu la volta di Goteborg, dove si era riunito il Consiglio europeo.
Man mano che il movimento cresceva e la protesta era sempre meno estemporanea, gli scontri con la polizia aumentavano, indipendentemente dal Paese e dal governo che accoglievano il vertice e il contro vertice di turno.
Già a Praga la militarizzazione della piazza apparve in tutta evidenza, dato che 9.000 manifestanti vennero affrontati da 11.000 agenti. A Napoli, quando in Italia era ancora in carica il governo Amato, le forze dell'ordine attaccarono il corteo preventivamente, prima che potesse giungere a destinazione, per poi ingabbiare i manifestanti in piazza del Municipio, dalla quale non avevano via di scampo per sfuggire alle cariche. A Goteborg, la polizia di un civilissimo Paese come la Svezia fece cariche a cavallo, lanciò cani-poliziotto contro la folla e non esitò a sparare: ne fece le spese un giovane, colpito a bruciapelo alla schiena dopo aver lanciato una pietra verso i poliziotti.
Questo era quindi il contesto in cui ci si preparava ad affrontare Genova: un movimento ampio ed eterogeneo, in rapida ascesa, capace di radunare un numero sempre maggiore di persone e con sempre maggiore frequenza. I potenti della terra, fossero presidenti, industriali o banchieri, si stavano dando un gran daffare per riorganizzare il mondo dopo la fine del comunismo, cercando di applicare su scala globale i principi del liberismo. A turbare la loro quiete, un numero sempre maggiore di persone che aveva capito la fregatura e li tallonava ogni volta che si riunivano. Bisogna sempre tenere questo aspetto bene in mente, se si vuole capire cosa accadde a Genova e perché.

LA VIGILIA
L'evento genovese venne preparato sui giornali e in TV con grande maestria dal nostro governo e dai suoi giornalisti asserviti. Ma ancor di più, furono gli apparati preposti alla sicurezza a svolgere un intenso ed efficacissimo lavoro nelle settimane e nei mesi antecedenti al vertice. Già nella primavera erano stati lanciati i primi allarmi per quello che sarebbe potuto accadere durante il meeting di luglio. Gli scontri di Goteborg avevano contribuito ad innalzare la tensione, che crebbe incessantemente man mano che ci si avvicinava ai fatidici giorni del G8. I giornali (tutti, "Corriere della Sera" e "Repubblica" in primis) riportavano veline dei servizi segreti - in particolare del Sisde - che preannunciavano scenari apocalittici.
Qualche esempio. Si disse che alcuni medici, collegati al Social Forum, stessero raccogliendo dagli ospedali sacche di sangue infetto che i manifestanti avrebbero poi lanciato contro le forze dell'ordine. Oppure che questi ultimi stessero facendo incetta di elicotteri radiocomandati che, riempiti di esplosivo, sarebbero stati scagliati contro gli agenti. Ancora, il lancio di frutta con dentro lamette da rasoio, di pneumatici incendiati da far rotolare o di pit-bull sguinzagliati nella caccia allo sbirro. La stampa locale diede grande risalto alla notizia che a Genova erano state fatte arrivare 500 bare, mentre la BBC, meno allarmista, parlò solo di 200 sacche da morto. A completare il quadro, un provocatore patentato come Casarini che con sguardo truce e insopportabile cadenza dialettale veneta leggeva, circondato da uomini in passamontagna e telecamere di tutto il mondo, una “dichiarazione di guerra ai potenti della Terra” nella quale annunciava la demenziale intenzione, sua e degli idioti che gli andavano appresso, di violare la Zona Rossa.
In una Genova che veniva sempre più militarizzata e svuotata dei suoi cittadini, comparvero ovviamente auto sospette e furgoni abbandonati. La Fai non poteva esimersi dal partecipare alla festa, e inviò qualche plico esplosivo con cui ferì, come al solito, qualche addetto alla posta e qualche segretario. Allo stesso tempo, i telegiornali riportavano continuamente notizie di arresti di elementi facinorosi, provenienti da tutta Europa, e del sequestro di materiale atto ad offendere.
Che il contro-vertice sarebbe stato un disastro, era ormai dato da tutti per scontato. Ma prima di Genova, centinaia di migliaia di persone restavano convinte in buona fede che lo scontro tra guardie e ladri non li avrebbe riguardati, perché loro non facevano parte né degli uni né degli altri.

I FINI GIUSTIFICANO I MEZZI
Una ricostruzione delle tre giornate di Genova non avrebbe senso. Su internet (basta YouTube) avete a disposizione tutti i filmati possibili ed immaginabili. Non serve quindi che sia io a spiegarvi della presenza di infiltrati delle forze dell'ordine nel corteo, dell'impunità garantita ai black bloc, lasciati liberi di devastare la città, delle cariche a freddo contro cortei inermi, delle autoblindo lanciate a sessanta all'ora contro i manifestanti sui marciapiedi, della morte di Carlo Giuliani, del massacro della Diaz, delle torture a Bolzaneto....
Do per scontato che queste scene le abbiate già viste. Ancora oggi, vedere un medico senza i denti e con la testa rotta fa ribollire il sangue. Stessa cosa dicasi per le scene in cui dieci carabinieri si accaniscono con calci e manganelli su di una persona immobilizzata a terra. Sono anni che le vedo e le rivedo, e mi fanno male ancora.
Do per scontato anche che siete al corrente di come si è mossa la giustizia da un lato, e di come si sono mossi i corpi “di sicurezza” (polizia, carabinieri, guardia di finanza) al loro interno. Ne riparlerò più avanti.
Quel che mi preme, è qui esprimere l'idea che mi sono fatto riguardo alla strategia che a Genova venne messa in atto. Dopo anni di informazione e contro-informazione, sono giunto alla conclusione che Genova è stata teatro di un'operazione ben precisa, ricalcata sull'orma di quanto fatto nel “piano Chaos”, lanciato in Europa dalla Cia nel 1963. La più classica, cioè, delle manovre “false flag”, solo che qui è stata portata a dei livelli di raffinatezza e perfezione mai visti prima.
Mi spiego meglio. Chi ha organizzato e gestito l'ordine pubblico a Genova ha ottenuto perfettamente quello che voleva. Perché suddetta gestione era finalizzata proprio ad ottenere il massimo dei disordini.
La psicologia della folla, si sa, è semplice. Di fronte alla violenza indiscriminata ed ingiustificata, anche la persona più mansueta è portata a reagire violentemente. Chi di voi, sceso pacificamente in corteo, sarebbe stato in grado di mantenere la calma, dopo essere scappato da un blindato che lo voleva investire, o dopo aver visto un proprio amico o la propria fidanzata venire massacrati di botte senza motivo alcuno?
Ma proviamo ad entrare nella camionetta. Dopo diciotto ore ininterrotte di servizio, ferito, con la temperatura a 40°, senza neanche la possibilità di pisciare, con pietre, bottiglie e molotov che vi piovono in testa, chi di voi sarebbe in grado di controllarsi al momento in cui arriva l'ordine di caricare?
Ovviamente per rispondere dovete mettervi nei panni di un 19-22enne, perché questa era la fascia d'età in cui rientravano la stragrande maggioranza sia dei manifestanti che dei poliziotti.
La prima valutazione che viene da fare è proprio questa: in una città che era la meno adatta per controllare un evento del genere, si è fatto di tutto perché la situazione scivolasse di mano, dando ordini di cariche assurdi (come quello di via Tolemaide, assurdo ed inquietante allo stesso tempo, perché evidenzia la presenza di una doppia catena di comando) da un lato, e lanciando giovani inesperti in età di leva contro i manifestanti dall'altro.
Giovani inesperti in età di leva appunto, che si trasformarono presto in belve feroci. Certo, la tensione, la paura e molto spesso anche una connotazione ideologica di destra (diffusissima tra polizia e carabinieri) possono spiegare in buona parte la brutalità con cui le forze dell'ordine di ogni corpo si accanirono contro i manifestanti. Ma non possono spiegarla del tutto. A mio parere va aggiunto anche un altro aspetto. Abbiamo parlato della preparazione mediatica del G8 sui giornali e le Tv. Nessuno, tranne i diretti interessati, può però sapere cosa è successo nelle caserme e nelle questure nei mesi e nelle settimane precedenti. 
Lo possiamo però immaginare. L'assassino impunito di Carlo Giuliani, Mario Placanica, in una intervista dichiarò che prima del vertice i suoi superiori avevano con grande insistenza ripetuto a lui e ai suoi colleghi che da Genova non tutti sarebbero tornati a casa, perché ad attenderli avrebbero trovato migliaia ci persone che li volevano morti. Certo, Placanica rappresenta un caso clinico, ma non per questo la sua testimonianza perde valore. O per lo meno, obbliga a chiedersi: quale tipo di clima venne instaurato tra le nostre forze dell'ordine alla vigilia dell'evento?
Migliaia e migliaia di ragazzi e ragazzini, molti dei quali ancora di leva, pochi con esperienza di gestione dell'ordine pubblico (ed in quei pochi casi limitata agli stadi), soggetti al lavaggio del cervello dei propri superiori, intimoriti da quanto stava accadendo. Aggiungiamo, magari, anche un po' di droga, in particolare cocaina, che - a giudicare dalle espressioni di alcuni agenti immortalati in certi video - molto probabilmente scorreva a fiumi nelle caserme e nelle questure. Avrebbero potuto comportarsi diversamente?
Questo non è un tentativo di assolvere gli agenti dalla loro responsabilità. E' al contrario un pesantissimo atto d'accusa ai vertici, che per reprimere il movimento No Global, hanno utilizzato migliaia di giovani italiani come carne da macello, terrorizzandoli, probabilmente drogandoli, buttandoli allo sbaraglio nella mischia e mettendoli nella condizione di trasformarsi in potenziali assassini.
Il tutto con la perfetta consapevolezza che in quella situazione, grazie ai loro ordini scellerati, avrebbero perso la testa.
Mettiamo quindi assieme infiltrati professionisti, agenti impreparati ed impauriti, manifestanti incazzati e spaventati, una catena di comando incerta (o meglio, mai chiarita) e ordini di cariche ingiustificate. Il risultato è stato il massimo del disordine e non poteva essere altrimenti. 

I MEZZI NASCONDONO I FINI
Chi ha pianificato Genova ha agito, dicevo, con grande raffinatezza ed ha stabilito una scaletta degli obiettivi da raggiungere. Le devastazioni dei black bloc, le cariche e i violenti scontri per le strade miravano a creare i presupposti per raggiungere quello che era lo scopo principale, ovvero la distruzione del movimento, che a Genova avrebbe dovuto trovare, come infatti trovò, la propria tomba. 
Si può parlare di due livelli di tale annientamento. Il primo era quello fisico. I manifestanti andavano massacrati di botte, torturati, impauriti e, magari, uccisi. L'irruzione alla Diaz e le torture alla caserma di Bolzaneto misero emblematicamente in mostra la sicumera di chi, celerini, secondini e aguzzini vari, potevano contare su delle palesi garanzie di impunità. Non si trattava più di combattimenti di strada, nei quali gli agenti possono perdere la testa, ma di repressione scientifica, studiata a tavolino, furiosa ma mirata, fisica e psicologica.
Il secondo livello sul quale fu deciso di operare per distruggere il movimento No Global era quello mediatico. Tv e giornali, così solerti nel compiere il proprio ruolo di zerbini del potere nelle settimane antecedenti, diedero un'ulteriore dimostrazione di dove sono in grado di arrivare, regalandoci un assaggio di quanto avrebbero poi fatto in seguito agli attentati dell'11 settembre. Nelle prime ore, le dirette televisive erano dominate dalla cronaca rosa dell'immancabile Caprarica: si parlava del pranzo dei potenti, del vestito della first lady e di altre amenità simili, mentre le strade erano in fiamme. Successivamente, gli inviati cominciarono a riportare gli eventi, parlarono di scontri violentissimi e di una minoranza di agitatori che nulla centravano con il corteo. Sembrerà assurdo, ma rivedetevi i filmati d'archivio: lo facevano anche sulle reti Mediaset. Poi però Berlusconi, nella prima conferenza stampa dopo la morte di Giuliani, affermò che il Social Forum nella sua interezza era colpevole delle violenze in quanto a suo dire aveva coperto i black bloc. Da quel momento cambiò tutto. I giornalisti da allora non fecero più alcuna distinzione tra i manifestanti, riportarono le veline delle questure come se fossero il Vangelo, evitarono accuratamente di mandare in onda i pestaggi delle forze dell'ordine, si soffermarono esclusivamente sulle devastazioni delle tute nere.
Un'operazione grandiosa, grazie alla quale il termine “No Global” divenne per la maggioranza degli italiani sinonimo di terrorista. Per dieci anni non più fu lecito criticare il sistema politico, economico e finanziario internazionale o la globalizzazione senza venire associati agli incappucciati che avevano devastato Genova. Dopo i disordini e la repressione, un'altra missione compiuta.

I COLPEVOLI
Ma chi sono i responsabili di quanto avvenuto a Genova? Direte voi: “un governo fascista ed una polizia fascista che hanno sospeso per tre giorni la democrazia e lo stato di diritto in Italia.” Brave suorine democratiche, non avete capito nulla.
Continuate ad attribuire a Berlusconi o ai suoi scagnozzi un'importanza che non hanno mai avuto. E allo stesso tempo vi indignate che dopo undici anni ci siano condanne pesantissime ai manifestanti mentre siano molto leggere quelle inflitte ai poliziotti oppure, come fa “La Repubblica”, arrivate addirittura ad esultare per queste ultime, che sarebbero la dimostrazione di come il vento sia cambiato da quando Berlusconi ha lasciato la presidenza del Consiglio.
La verità è che le condanne ai poliziotti sono ridicole, perché nessuno di loro farà un giorno di galera e perché vengono dopo dieci anni di promozioni a pioggia. Lo stesso Manganelli, che oggi chiede scusa alle vittime, ha fatto carriera con il G8, mentre De Gennaro, cattivo capo della polizia sotto Berlusconi, è oggi sottosegretario nel buon governo Monti. La magistratura italiana ancora una volta non si è lasciata scappare l'occasione di dimostrare la propria sudditanza al potere politico: per i nostri giudici sfasciare delle vertine è molto più grave che mandare in coma una persona o addirittura ucciderla, come nel caso di Sandri, Cucchi, Aldovandri. Se poi sei un carabiniere, per carità, la giustizia sommaria ti assolve dall'accusa di omicidio senza neanche processarti. Capisco che per voi queste ingiustizie non siano “degne di uno stato democratico”. Continuate pure ad avere fede nello Stato, nelle istituzioni, nella Costituzione. Aggiungete anche una preghierina e vedrete che queste spiacevoli vicende non si verificheranno più.
Non raccontiamoci balle. Le forze dell'ordine, a Genova, non hanno fatto altro che eseguire gli ordini. Per questo motivo i loro membri sono stati premiati dai propri corpi di appartenenza, in primis, e dalla magistratura in seconda battuta. Molto più colpevoli dei poliziotti e dei carabinieri che hanno manganellato, sono i loro vertici. Ma i loro vertici sono guidati dalla politica. Ecco allora che ci avviciniamo: perché la temeraria magistratura italiana, così risoluta nel guardare sotto la gonna della maestra in occasione del “Ruby Gate”, non ha chiamato Berlusconi a rispondere del suo operato, per lo meno come persona informata sui fatti, in quanto primo ministro e personale organizzatore della sicurezza del G8? Perché Fini - e con lui Mantovano - si vantava di essere all'interno del comando operativo nelle giornate in questione, senza che per questo abbia dovuto rendere conto a nessuno? Se a Scajola non avessero regalato una casa “a sua insaputa”, l'ex ministro degli interni avrebbe mai avuto guai con la giustizia? Ma l'Italia è così. Se vi chiamate Castelli, oltre a diventare ministro della giustizia con un laurea in ingegneria, potete anche aggirarvi impunemente tra le stanze del carcere di Bolzaneto durante le torture e farne pure vanto. Non vi succederà nulla. Se poi siete addirittura Antonio Martino, tutti si dimenticheranno che i carabinieri sono un corpo militare, dipendente da ministero della Difesa, e che del loro operato (cioè di centinaia di feriti, di cariche con i blindati e di un morto) voi dovreste essere i responsabili.

MA COME, CE NE SONO ALTRI?
In questo contro-processo qui improvvisato contro i responsabili di quanto avvenuto a Genova, non si può lasciare da parte quanti hanno concorso al reato. Quando Violante affermava in aula, dopo la morte di Giuliani: “piena solidarietà alle forze dell'ordine”, non commetteva forse apologia di reato? Manganelli subito dopo le condanne ai poliziotti ha chiesto scusa alle loro vittime; noi siamo ancora in attesa che Violante chieda scusa agli italiani.
Indimenticabile, poi, il trio Fassino-Vespa-Casarini a “Porta a Porta”. Il primo, che coglieva l'occasione dell'uccisione di Giuliani per invitare gli aderenti al suo partito a tornare a casa senza partecipare alla manifestazione del sabato (peccato, sarebbero state le uniche manganellate che avrebbero avuto una giustificazione), prendendo le distanze dall'intero movimento e lasciando il campo libero alla repressione. Vespa, che durante la diretta lustrava le scarpe a Fini (sì, lo stesso che oggi a sinistra è venerato come temerario e coraggioso oppositore a Berlusconi). Casarini, autoelettosi portavoce di una parte del movimento (per poi tentare senza successo una carriera parlamentare), che fomentava la rabbia e la frustrazione di una piazza già sufficientemente massacrata. Se non avesse incitato alla violazione della Zona Rossa, fornendo così il destro per poter caricare a freddo un corteo di migliaia di persone autorizzato solo a metà, le cose sarebbero forse andate diversamente e Carlo Giuliani sarebbe probabilmente ancora vivo. Per lo meno le forze dell'ordine avrebbero dovuto inventarsi qualche altro espediente per scatenare la guerra civile. 
Quelli che andavano appresso a Casarini erano dei ragazzini. Lui no. Pagato o meno, è stato un efficientissimo provocatore.
E poi ci sono Feltri, Fede, Belpietro, Caprarica, Gad Lerner (non dimentichiamoci le sue dirette) e tutto l'apparato televisivo italiano, che oltre ad aver fatto un torto alla propria professione, dovrebbe rispondere di apologia del reato. 

...COSA? ALTRI ANCORA?????
Li abbiamo elencati quasi tutti, ma sul banco degli imputati manca quello principale.
Il giornalista inglese Mark Covell, fuori dalla scuola Diaz, è stato mandato in coma dagli agenti, che gli hanno rotto le costole e perforato un polmone. Per le strade, così come nella stessa scuola Diaz o a Bolzaneto, decine di giovani stranieri, fossero inglesi, tedeschi, francesi o spagnoli hanno subito percosse e violenze ingiustificate quanto efferate.
E' famosa la denuncia fatta da Amnesty International, che affermò solennemente: “la più grave sospensione dei diritti umani e bla bla bla”. Bravissimi e coraggiosi. Un po' meno solenne tuttavia la denuncia del governo inglese, di quello francese, tedesco o spagnolo. Molto pacati furono i Chirac, gli Shroeder, gli Aznar e i Blair quando seppero che alcuni propri cittadini si trovavano negli ospedali italiani o peggio, a distanza di giorni erano letteralmente scomparsi perché ostaggi a Bolzaneto, dove non avevano contatti con l'esterno e dove veniva loro negato il diritto ad avere un avvocato. Ve lo ricordate? Un silenzio indimenticabile, il loro, tanto fu assordante.
Viene quindi da pensare che gli altri governi abbiano fatto omertà nella repressione contro i No Global. Questi andavano massacrati e non difesi: se non fosse così, non si spiega come mai le varie cancellerie non presero le difese dei propri concittadini, e di come si siano ben guardate dal protestare formalmente contro l'Italia. Ma se le diplomazie non si mossero, lo fecero le Sante istituzioni comunitarie come, ad esempio, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Quella che solo qualche settimana fa ha assolto il governo italiano dall'accusa di essere responsabile della morte di Carlo Giuliani. Se ci si limita a considerare l'episodio in sé (due ventenni che si ammazzano a vicenda) la sentenza è comprensibile: se Placanica ha sparato perché impaurito non può essere colpevole l'Italia tutta. Però se si inserisce il tragico incidente nel contesto in cui è maturato, risulta un po' più difficile da spiegare l'assoluzione del nostro Paese anche sull'accusa di non aver organizzato e pianificato in modo adeguato le operazioni di polizia durante il summit. Solo l'Ue è riuscita a negare la realtà di un fallimento che gli stessi ministri italiani erano stati costretti ad a ammettere.

MORALE DELLA FAVOLA
Concludiamo. Appare ormai evidente che è stato un potere ben più grande del solo, servile, governo italiano ad aver deciso di annientare il movimento No Global. L'operazione preparatoria, a cominciare dalle manifestazioni precedenti, è stata chirurgica. A ridosso del G8, i servizi di tutti i Paesi hanno fatto affluire i manifestanti provocatori da ogni dove, fornendo rapporti fasulli a quelli italiani, che a loro volta hanno rincarato la dose di fantasia e soffiato a dovere nelle nostre fanfare mediatiche, affinché la psicosi, tra i manifestanti e negli stessi corpi polizieschi, raggiungesse l'apice. Durante il summit, dei continui corto-circuti nella catena di comando hanno contribuito a far degenerare la situazione. E', questa, un'altra conferma del ruolo di primo piano dei corpi di intelligence: le gerarchie dei servizi segreti non seguono quelle dei corpi ufficiali, per cui può capitare, ad esempio, che nelle operazioni segrete un colonnello dia ordini ad un generale. Ricordatevelo, quando sentite le intercettazioni tra i comandi, nelle quali i graduati non si sanno spiegare come mai i propri inferiori abbiano fatto partire delle cariche senza ricevere da loro ordine alcuno.
Quella che doveva essere l'opposizione ha fatto il resto. Da un lato ha agito secondo modalità pilatesche (Fassino e i Ds), dall'altro ha contribuito a fomentare la tensione (Casarini, Caruso et similia). All'indomani, si è poi divisa tra vergognosi apologhi di reato come Di Pietro, opportunisti come Violante (che ebbe addirittura il coraggio di deporre un mazzo di fiori in Piazza Alimonda) e tanti, tantissimi ipocriti. Come quelli che hanno continuato a urlare contro “Berlusconi fascista”, dimenticandosi che a Napoli avevano agito allo stesso modo quando al governo c'erano loro, o come quelli che oggi celebrano il sermone “giustizia è fatta”, esultando per le ridicole condanne inflitte alle forze dell'ordine. E che non hanno il coraggio di far notare la sproporzione tra una condanna a dieci anni per chi ha sfondato una vetrina e quella a due anni per chi si è macchiato di lesioni gravi e gravissime.
Dopo undici anni, Genova fa ancora paura. Fa paura perché offre uno squarcio di cosa sia in grado di fare il potere, che non è un poliziotto in divisa o un ministro incravattato. E' qualcosa di molto più grande, che riesce a mettere in campo uno schieramento mediatico, spionistico, militare, politico e giudiziario, con il quale nessun movimento di piazza, per quanto consapevole, ampio e partecipato possa essere, è minimamente in grado di confrontarsi.
Genova ci ricorda che al di sopra dei nostri governi, siano di destra o di sinistra, ci sono livelli di dominio ben più elevati, che dei nostri governi si servono a tutela dei propri interessi, con la sicumera di chi può fare affidamento su di un cane da guardia tanto fedele quanto feroce.
Genova, inoltre, ci ricorda che la nostra magistratura non ci darà mai giustizia, perché è sempre stata e rimarrà prona al potere politico ed ai corpi di polizia, ai quali non torcerà mai un capello, mentre con gli oppositori non esiterà ad essere inesorabile e spietata.
Genova, per tutti questi motivi, ci riporta con la mente alla vicenda di piazza Fontana, e con essa a tutte le altre stragi di Stato: uno Stato privo di ogni dignità ed indipendenza, timido e riverente con i potenti ma feroce nello scagliarsi contro i propri cittadini indifesi, inflessibile nel punire i propri nemici, beffardo nell'auto-assolversi. Voi la chiamerete “democrazia incompiuta”. Io la chiamo semplicemente democrazia.

Nessun commento:

Posta un commento