mercoledì 29 febbraio 2012

TEMPO DI BILANCI


Dopo la lezione della Piazza Rossa di Mosca, sulla quale il potere sovietico mostrava al mondo la sua potenza sfoggiando i propri arsenali militari, ci eravamo convinti di sapere tutto sulle tecniche di esibizione muscolare adottate dai regimi autoritari. Allo scadere dei cento giorni dall'instaurazione del governo Monti piove tuttavia un macigno sulle nostre certezze, poiché il nostro sistema politico, seppur così diverso da quello sovietico, ci insegna che per ottenere lo stesso risultato non serve scomodare i missili balistici in quanto, presentati a dovere, i soli volti grigi dei vertici del PCUS - quelli che apparivano imbalsamati nei loro cappottoni sul balcone dei musoleo di Lenin - avrebbero potuto essere più che sufficienti. Lo zelante burocrate nostrano sarebbe stato benissimo o al posto di Cernenko e Andropov ma, a differenza loro, per avere un paese interamente intruppato ai suoi piedi non ha bisogno di farsi ritrarre di fronte ai T72 o alle batterie di Katyusha. 
I telegiornali degli ultimi tre giorni hanno infatti snocciolato una serie di cifre che non fanno altro che esaltare i gloriosi successi raggiunti dal governo nei primi cento giorni di dittatura. Uso questo termine perché seriamente convinto che di questo si tratti. Il sistema politico oggi in vigore nel nostro paese ha a mio parere i connotati del più subdolo, ma allo stesso tempo ferreo, intransigente e totalitario regime che l’Italia abbia mai conosciuto. Non scrivo una cosa del genere a cuor leggero, tanto per fare, e so che affermazioni del genere vanno sostenute con argomentazioni che devono essere corpose e non mi sottrarrò dal farlo.
Sgombero subito il campo dagli equivoci: non sto parlando di “democrazia in pericolo”, “emergenza democratica” o analoghi piagnistei. Sono espressioni che odio. Per il sottoscritto un sistema democratico non è mai esistito e, come i maiali che volano, mai esisterà a meno di un giramento di palle di Madre Natura. Di conseguenza non sono stupito né indignato dal fatto che oggi in Italia ci sia un governo non democratico; non posso tuttavia fare a meno di constatare che di fronte al potere di quella che definisco “l’usura di stato”, la telecrazia berlusconiana impallidisca miseramente.
Stavamo parlando dei mass media. I canali di proprietà del Cavaliere [del lavoro (altrui)], la tv di stato, per non parlare dell’outsider LA7, fanno da 100 giorni a gara nel prostrarsi di fronte al “governo dei professori”, elogiandone il rigore, l’equità, la sobrietà. E oggi, con grande puntualità, hanno unito le loro voci in un sol coro. Le varie Berlinguer, Gabanelli, Mentana e con loro tutti quelli che fino a ieri erano i paladini della libera informazione, si sono trasformati in zelanti Bruno Vespa, mentre i Vespa e i Fede sono rimasti Vespa e Fede. La Repubblica sembra ormai la Pravda dei tempi che furono, e il Corriere della Sera si mantiene sui suoi standard di giornale portavoce del regime e della Nato. Liberazione per fortuna è sparito, il Di Pietro Quotidiano oscilla tra grillismo esasperato (a proposito, Grillo non è ministro solo perché non ha studiato alla Bocconi) e il travaglismo, non meno deleterio. Libero e il Giornale urlano contro non si sa chi, La Padania piange per la chiusura dei ministeri al nord e tuona contro non ben definiti “i poteri forti”. Insomma, vi invito a segnalarmi una voce di opposizione, o per lo meno critica, nelle TV, nei giornali e nel parlamento in questo momento.
Tutti i principali esponenti politici, da Berlusconi a Bersani, da Fini a Casini, da Di Pietro a Platinet, hanno firmato un assegno in bianco e lo hanno consegnato all’occhialuto economista e alla sua banda di burocrati. Pdl e Pd, per non parlare del terzo polo, dopo vent’anni di guerra civile virtuale (in cui hanno insegnato agli italiani a concepire la politica come un derby calcistico) si sono resi conto di non essere così nemici e hanno scoperto che, proprio perché litigarello, il loro era vero amore. La Lega Nord e Vendola sono gli unici a giocare a fare gli oppositori, per ovvi motivi elettorali: nel primo caso con becera arroganza, nel secondo con uno pseudo-intellettualismo altrettanto irritante. Discorso analogo per i vari Grillo e Ferrero, veri e propri artisti nel coniugare demagogia, ottusaggine e ingiustificati complessi di superiorità.
Stiamo dunque parlando di un paese in cui presidente del consiglio e ministri sono stati nominati e non eletti, dove i mezzi di informazione sono utilizzati come strumento di propaganda - Goebbels se li sognava 900 canali televisivi che dicessero tutti la stessa cosa -, dove i partiti non esprimono pluralità di visioni politiche ma unità di intenti nel preservare privilegi e posizioni di potere nelle amministrazioni, con la conseguenza che non esiste alcun tipo di opposizione parlamentare mentre, dall’altro lato, permane una classe burocratica e parassitaria che deve le proprie fortune al sistema che l’ha generata, in spudorata contraddizione con la tanto decantata meritocrazia. Questa è la situazione dell’Italia di oggi, per molti versi analoga a quella fascista di ottant’anni fa, la quale - e non sapete quanto mi pesi riconoscerlo - sotto molti punti di vista era più dignitosa. Durante il fascismo infatti il dibattito politico e culturale, almeno fino ai primi anni Trenta, era molto più intenso e qualitativamente superiore. Oggi non troverete tra Gad Lerner, Paolo Mieli, Sofri, Ferrara e Giannino, la varietà di posizioni che esprimevano pensatori come Gentile, Evola, Spirito, Bottai. E il dibattito riguardava ogni aspetto della vita politica e sociale: l’educazione (abbiamo mai avuto in settant’anni di democrazia un ministro dell’istruzione lontanamente paragonabile a Gentile? O forse preferite la Moratti e De Mauro?), l’idea di nazione, la religione, il rapporto tra Stato e Chiesa, la politica industriale e agricola e così via. Poi, esattamente come in democrazia, erano ovviamente i rapporti di forza a stabilire la vittoria di una corrente sull’altra, senza però mettere in scena quella patetica manfrina che presenta un regime che ha la pretesa di spacciarsi per “pluralista”. La nostra situazione è invece simile a quella dei tardi anni del regime, quanto ormai il dibattito si era ridotto al culto del duce e al suo corollario di parrocchie e caserme, e la politica agricola ed industriale erano completamente in mano alla grande borghesia nazionale (per quanto un governo imposto a tutela dei potentati finanziari internazionali sia ancor meno dignitoso). Il potere attuale si presenta ben consolidato, come lo era nell’Italia del 1936, ma anche nella Russia o nella Germania di fine decennio (quando le idee di personaggi come Bucharin, Kirov e Zinovev da una parte e Niekitsch, i fratelli Strasser e Rohm dall’altra, erano ormai neutralizzate). Sono convinto, senza poterlo però provare, che tra gli stessi ayatollah iraniani ci sia più varietà di vedute sulla politica e sul mondo (Corano compreso) che tra i ministri e i parlamentari italiani. A noi mancano, è vero, le divise militari, i volti truci, le adunate oceaniche. Ma è solo una questione di stile.
Come allora ci viene inoltre raccontato che siamo in pericolo, sotto l’attacco congiunto di nemici interni ed esterni che si annidano ovunque e che ci faranno precipitare nel caos, se il governo non avrà la possibilità di affrontare l’emergenza con mezzi straordinari. Di fronte all’eccezionalità della situazione, pare ovvio che ogni dibattito va rimandato a tempi migliori e ogni posizione critica, laddove esistente, emarginata. Per il momento dobbiamo solo fare il tifo per il governo ed elogiarne i successi. Esattamente come in Germania si lodava Hitler, difensore del popolo tedesco dalla cospirazione giudaica, o come a Mosca si ringraziava il compagno Stalin per aver scovato e punito “i sabotatori”, oggi siamo tutti uniti attorno ai professori. So che queste parole faranno inorridire molti di voi, perché già la maestra dell’asilo ve lo diceva che per fortuna noi viviamo in una democrazia, perché in dittatura tutto è brutto e piove sempre mentre da noi si può andare liberamente al cinema e c’è sempre il sole. La corposa setta dei democratici, quelli che ogni mattina recitano la preghierina che dice “la peggior democrazia è meglio della miglior dittatura”, riterranno quanto da me affermato offensivo quanto l’incendio del Corano per un talebano.
Quando parlo con quanti credono nel dio della democrazia, mi sento sempre dire che dico falsità perché in Italia non ci sono gulag, né confino, né desaparecidos e che se io posso blaterare liberamente su questo blog vuol dire che c’è una libertà di espressione che in dittatura mi sognerei. Tutto ciò è vero, ma non contraddice quanto da me sostenuto, perchè non è il grado di violenza esercitata dallo stato a stabilire quando un regime è autoritario o non lo è. Il grado di violenza che un regime può esercitare è connaturato alla sua capacità di controllo della società, capacità che a sua volta è strettamente legata al grado tecnologico di cui il potere è in possesso. Oggi olio di ricino e bastonate non sono necessari per più motivi. Il primo risiede nel fatto che la fase repressiva del sistema si manifesta prima, attraverso gli strumenti del controllo, che permettono un intervento tempestivo solo qualora l’individuo in questione rappresenti un serio pericolo per l’ordine stabilito. Codici vari, telecamere anche in cima ai monti, cellulari, social network: possiamo elaborare un dossier di cento pagine su qualsiasi cittadino italiano in men che non si dica. Se poi questo si è in qualche modo esposto, sarà ancora più facile tenerlo controllato e agire di conseguenza. Il secondo motivo che rende obsoleta la repressione classica sta nel fatto che, dato il possesso di questo potenziale tecnologico da parte di chi comanda, la libertà d’espressione è oggi molto più conveniente ed efficace che la censura. Il cittadino di oggi vive nella convinzione di poter cambiare il mondo e la politica perché è libero di esprimere una propria opinione, attraverso il voto, la partecipazione ad una manifestazione o ad una iniziativa. Nella maggior parte dei casi non sa che: se le sue opinioni sono innocue per il potere, avrà tutto lo spazio di cui necessita; se le sue opinioni sono in qualche modo scomode ma non pericolose, verrà lasciato a svuotare l’oceano con un secchio; se le sue opinioni o azioni risulteranno effettivamente pericolose per l'ordine politico - non pubblico, sia chiaro - la sua attività verrà immediatamente stroncata.
Da questo punto di vista il sistema attuale ha una grandissima capacità di appaltare l'aspetto più sgradevole, quello dell'eliminazione fisica degli oppositori e dei pericoli. Settant'anni di storia repubblicana hanno visto morire centinaia di individui che erano delle vere e proprie mine vaganti: giudici (Occorsio, Amato, Alessandrini, Falcone, Borsellino solo per citarne alcuni), testimoni di processi (pensiamo agli anni delle stragi e a quanti sono stati uccisi perché non parlassero: caduti dalle scale, “suicidi”, uccisi in carcere, alla guida di aerei sabotati – Ramstein vi dice nulla?) esponenti politici (Da Moro a Fortugno) giornalisti (Ilaria Alpi, Siani, De Mauro e chi più ne ha più ne metta). Le esecuzioni apertamente rivendicate dallo stato sono state tuttavia pochissime, e quasi esclusivamente limitate ad episodi di violenze di piazza. Per il resto il lavoro sporco lo hanno sempre fatto altri: mafiosi, n'dranghetisti, camorristi, brigatisti, neofascisti, la banda della Magliana, briganti vari. Tutti elementi cioè apparentemente nemici dello stato, che si sono presi la briga di salvare la faccia a quest'ultimo, uccidendo quanti avrebbero potuto palare dei rapporti tra il regime politico e le loro stesse organizzazioni. Veramente non ci avete mai pensato?
Il volto benevolo dello “stato di diritto” ha ovviamente anche altri mezzi per annientare i propri nemici. Sto parlando della magistratura, quella che lavora costantemente per prescrivere, salvare, amnistiare esponenti della classe politica, da Andreotti a Berlusconi, mentre non esita ad affibbiare il carcere preventivo agli oppositori, anche ai semplici manifestanti (vedi Val Susa), in attesa del processo. La democrazia, secondo i criteri degli illuministi francesi, dovrebbe presentare una netta distinzioni dei poteri, in modo che ci possa essere equilibrio e la sfera politica non possa esercitare controllo su apparati giuridici e polizieschi. Vi reputo delle persone intelligenti, per cui vi risparmio infiniti e scontati esempi che dimostrano la stretta dipendenza della magistratura, della polizia, dell'esercito, della finanza e dell'arma dei carabinieri dal potere politico italiano nel nostro dopoguerra.
Mi sembra di aver argomentato abbastanza, e spero che tra tutti coloro che hanno abbracciato l'arrivo di Monti come una liberazione dalla dittatura berlusconiana e un ritorno alla democrazia, almeno qualcuno cominci a porsi qualche dubbio sul paese in cui viviamo. Presto pubblicherò un post più dettagliato sulla situazione politico-economica attuale.

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