giovedì 27 ottobre 2011

SCONTRI A ROMA: NUOVE INTERNAZIONALI CRESCONO?

Prima di entrare nel merito del movimento degli indignati e dei fatti di Roma del 15 ottobre scorso, bisogna fare una premessa. Il più grave limite dei nostri politici, politologi, giornalisti e storici è sempre stato quello di credere che l’Italia sia l’ombelico del mondo: portati a soffermarsi sul particolare, sulla vicenda specifica o addirittura sul gossip, i succitati personaggi hanno molto spesso partorito delle analisi che non tengono conto del contesto internazionale nel quale il nostro Paese è inserito. Ovviamente ci sono delle eccezioni particolarmente meritorie, ma il loro encomiabile lavoro viene troppo spesso sommerso nell’abbondantissima produzione mainstream.
La questione della manifestazione di Roma può essere affrontata in due modi.
Il primo prevede che si ripeta il ritornello sentito su tutte le tv e letto su tutti i giornali: “i giovani sono esasperati e vogliono un futuro migliore. Hanno ragione ad indignarsi; il loro era un corteo pacifico, rovinato da pochi delinquenti che hanno distrutto tutto e attaccato la polizia. Tutti in coro condanniamo le violenze”. Il secondo approccio invece si propone di andare più a fondo, chiedendosi: 1. Chi sono questi black bloc e cosa vogliono. 2. Chi sono gli indignati e cosa vogliono. 3. Qual è la situazione politica nella quale è esplosa questa protesta. 4. In quale situazione internazionale ci troviamo.
Da storico, o aspirante tale, mi trovo costretto a trattare i precedenti punti a ritroso, in modo da inquadrare bene lo scenario globale prima di poter azzardare conclusioni sulla situazione italiana. Conclusioni che lascerò infine dedurre al lettore che, spero, si approcci alla vicenda in un modo un po’ più critico dopo aver letto questo intervento.

UN MONDO CHE DISSENTE
Oggi c’è la crisi, lo sanno tutti e non serve che ve lo dica. C’è però anche un altro aspetto: dal 1989 in poi il mondo ha conosciuto una serie di cambiamenti epocali: il crollo del muro di Berlino, la sanguinosa fine della Jugoslavia, l’11 settembre, le guerre dell’amministrazione Bush, l’esplosione del terrorismo islamico, la fine dei regimi pluridecennali di Saddam, Mubarak, Ben Alì, Gheddafi. In ognuno di questi eventi le masse hanno giocato un ruolo da protagonista: sono state colpite dai crimini più efferati, hanno appoggiato le campagne militari o sono scese in piazza contro quest’ultime, hanno abbattuto i dittatori mediorientali.
Se il nostro scopo è capire il rapporto tra masse e potere nell’era in cui viviamo, dobbiamo partire proprio dalla connotazione che i movimenti di piazza hanno assunto negli ultimi anni. Oggi le piazze sembrano in grado di scardinare - da noi come altrove - regimi fino a ieri solidissimi, senza peraltro ricorrere all’uso della violenza, cosa che dal dopoguerra al 1989 (con la parziale eccezione del Portogallo nel 1974) non erano mai state in grado di fare, nemmeno in occasione delle enormi sommosse dei tardi anni Sessanta.
A fare da apripista furono le folle oceaniche di Berlino, Cracovia, Bucarest. Dieci anni dopo saranno i giovani belgradesi a riempire le piazze e a cacciare Milošević. E’ da loro che ho intenzione di partire.
Rimasto in sella dopo l’infruttuoso e sanguinoso bombardamento subito dalla NATO, il presidente serbo Slobodan Milosevic nell’ottobre del 2000 fu costretto, in seguito a una grande manifestazione popolare, a riconoscere la sconfitta nelle elezioni appena tenutesi. Dove non arrivarono le bombe della NATO, arrivò l’opposizione di piazza, organizzata dal movimento OTPOR (Resistenza) e guidata da giovani studenti belgradesi.
Oltre dieci anni dopo la caduta dell’autocrate Milošević, la situazione in Serbia non sembra essere cambiata più di tanto. La malavita ha allargato il suo raggio d’azione (arrivando ad uccidere il primo ministro Đinđić, che le aveva dichiarato guerra), le condizioni economiche della popolazione sono difficilissime, il Paese è stato notevolmente ridotto dal punto di vista territoriale (perdendo prima il Montenegro, poi il Kosovo), la corruzione politica appare talmente diffusa che l’astensionismo in occasione delle elezioni si avvicina al 50%. Come si spiega tutto questo? Com’è possibile che un popolo così determinato perda slancio ed entusiasmo all’indomani di una vittoria così importante, tanto da non voler essere partecipe della democrazia tanto faticosamente conquistata?
Il cambio di potere in Serbia, in realtà, ha colpito Milošević e la sua cricca, ma ha lasciato inalterati altri assetti di potere. Ciò che più conta, non ha partorito una nova classe dirigente, cosa che dovrebbe essere la conseguenza prima di ogni rivoluzione. Il movimento OTPOR, calamita del malcontento fino all’autunno del 2000, cercò di organizzarsi in partito, ma quando si presentò alle elezioni del 2003, raccolse solo l’1,6% dei voti e dopo qualche travaglio si sciolse e confluì nel Partito Democratico Serbo. Mai movimento rivoluzionario fu tanto sfigato.
Lo scioglimento del partito fu accompagnato da una serie di polemiche, che videro per protagonisti alcuni dei suoi giovani esponenti più in vista. Questi iniziarono ad accusarsi a vicenda per la sparizione di fondi ricevuti, anni addietro, da generose organizzazioni non-profit straniere interessate al destino dei cittadini serbi. Negli stessi giorni in cui andavano in scena i moti di Belgrado, nella stampa americana stava cominciando ad emergere il ruolo avuto nella vicenda da alcuni protagonisti non serbi. L’organizzazione no-profit NED (National Endowment for Democracy), l’agenzia governativa IRI (International Republican Institute) e l’USAID (United States for International Development) - quest’ultima per bocca del suo presidente di allora, il senatore John McCain -  ammisero, quando non vantarono, di aver fornito ingenti appoggi economici agli organizzatori del movimento di protesta.
Non è il caso di soffermarsi su queste organizzazioni, ciascuna delle quali possiede un proprio sito internet nel quale si può verificare la loro esistenza, si può conoscere la loro storia e la loro attuale attività. Allo stesso tempo è impossibile stabilire, e non ci interessa neanche, se l’OTPOR sia stato un movimento creato a tavolino o un’organizzazione spontanea. Il finanziamento straniero, nella fattispecie americano, è già di per sé sufficiente per comprendere come il movimento si sia potuto espandere a macchia d’olio nella società serba e per capire le ragioni della simpatia dimostrata dalla stampa internazionale (italiana in primis) nei confronti dei manifestanti serbi. Sul medio periodo, dobbiamo concludere che la rivoluzione dell’Otpor ha tolto di mezzo un capo di stato scomodo per l’Occidente, ha permesso l’apertura del Paese balcanico ai capitali occidentali (attraverso una serie impressionante di privatizzazioni) e ha fatto da premessa ad una indolore frammentazione della Serbia a favore del Kosovo (dove è stata costruita la più grande base NATO dell’Europa Orientale). Non ha però espresso nuovi leader, né una nuova forma politica, né ha intaccato i centri di potere (esercito e polizia) preesistenti. Insomma, è stata una rivoluzione così non violenta da risultare morbidissima, quasi una non-rivoluzione.
Se questi sono stati gli esiti, quali erano gli obiettivi che si prefiggeva il movimento? Oltre alle iniziative (proteste, scioperi, boicottaggi di vario genere) contro Milošević, c’è ben poco. Nato tra gli studenti dell’università di Belgrado - ricordiamocene - , l’Otpor vanta una “gerarchia di comando orizzontale”, il che spiegherebbe l’assenza di un leader. Una proposta concreta che vada al di là di generiche “democrazie dal basso”, non c’è. Il movimento è a-ideologico, non è per il libero mercato, né per l’economia pianificata, parla di pace ma non di programmi specifici in politica estera. Fa della sua indeterminatezza la sua forza, punta tutto su slogan quali “unità, libertà, solidarietà”, e sulla lotta la nemico assoluto, Slobodan Milošević.
Non sorprende quindi che i giovani belgradesi non siano riusciti ad andare un passo oltre la caduta del loro ex-presidente. Sorprende invece che il loro esempio abbia fatto scuola. Due ex-esponenti di OTPOR, Srdja Popovic e Slobodan Djinovic, fondarono nel 2004 l’istituto denominato CANVAS (Centre for Applied Non Violent Actions and Strategies), una sorta di palestra per le rivoluzioni non violente, che si pone l’obiettivo di insegnare, ai cittadini che vivono sotto dittatura, come sbarazzarsi del tiranno di turno. Ufficialmente svincolata da partiti e governi, il CANVAS ha sostenuto e sostiene i movimenti democratici di numerosi paesi.  Questo il loro sito, nel quale potrete trovare tutte le informazioni che per motivi di spazio preferisco tralasciare:
In particolar modo consiglio di visitare la pagina contenente il manuale perfetto della rivoluzione non violenta:
Di “rivoluzioni” analoghe a quella serba, effettivamente, ne abbiamo viste altre nel corso degli anni. Dopo Belgrado, è stata la volta della “Rivoluzione delle rose” in Georgia nel 2003, che portò alle dimissioni di Ševardnadze e aprì la strada ad un governo filo-occidentale. Un anno dopo, fu la volta dell’Ucraina dove, esattamente come in Georgia, venne contestata la validità delle elezioni presidenziali. Per quanto poi notevolmente ridimensionata dalla controffensiva russa, la filo-occidentale “rivoluzione arancione” riuscì ad ottenere l’obiettivo prefissato, l’annullamento della vittoria di Janukovic e nuove elezioni. Della curiosa somiglianza tra queste vicende e quanto accaduto a Belgrado pochi anni prima, qualcuno se ne accorse già all’epoca:
Analogo discorso si può fare con la rivoluzione dei tulipani in Kirgizistan, che portò alla caduta del presidente Akayev nel 2005. Come in Ucraina, la rivoluzione non portò certo ad una stabilizzazione politica del Paese, che nel 2010 fu nuovamente sconvolto da un colpo di stato.
Se in questi casi il “modello Otpor” ha – seppur temporaneamente - funzionato, in altre regioni dell’Europa orientale le rivoluzioni colorate non sono ancora riuscite a scalfire i governi in carica. E’ il caso di Azerbaijan, Bielorussia, Mongolia.
A scuola e all’università mi hanno insegnato che non si può capire nulla della storia prescindendo dall’uso dell’atlante storico. Date un’occhiata alla carta geografica e potrete così immaginare quale importanza possono avere i Paesi citati nei rapporti tra Occidente, Russia e Cina. Per una grande potenza, avere un governo amico in quelle zone significa anche entrare in possesso di basi aeree, postazioni missilistiche o scudi anti-missile, in settori vicini ai maggiori teatri di crisi. Questo solo dal punto di vista strategico, senza contare altri fattori, economici ed energetici, non meno importanti.
Dopo l’Europa Orientale, il Caucaso e l’Asia centrale, il vento di rinnovamento ha recentemente cominciato a soffiare nei paesi arabi del Golfo Persico e del Mediterraneo. La “primavera araba” è, in buona parte, ancora in corso, per cui trarne un bilancio affrettato sarebbe un grave errore: alcune rivolte sono state stroncate, altre sono risultate vittoriose, di alcune si parla, di altre si tace. Il modo islamico è composto da emirati e dittature laiche, la società è divisa in sette e tribù, alcune regioni sono urbanizzate, altre sono composte da villaggi. Impossibile quindi fare un discorso generale senza cadere nel rischio di una banalizzazione. I casi di Egitto, Libia, Tunisia, ecc. andrebbero analizzati ognuno nella sua complessità.
Ci sono tuttavia alcuni punti fermi: i media (e i politici) occidentali hanno sposato immediatamente la causa degli insorti in quei paesi dove c’era (o vi è tuttora) un regime laico militare: Tunisia, Libia, Egitto, Siria. Lo stesso non è accaduto per quanto riguarda monarchie come Yemen o Bahrein: di questi paesi non si è praticamente mai parlato, e la repressione governativa di quei governi non è stata oggetto nemmeno di una conferenza stampa da parte dei politici europei e statunitensi. Al di là del fatto che anche in questo caso uno sguardo alla carta geografica potrebbe fornire interessanti spunti di analisi (non c’è un porto di accesso sul Mediterraneo, da Suez a Gibuti, che non abbia subito sconvolgimenti), troviamo anche in questo caso delle significative affinità con quanto avvenuto qualche anno orsono nei casi precedentemente citati.
In Iran la vittoria elettorale di Ahmadinejad alle elezioni presidenziali del 2009 fu aspramente contestata dai suoi oppositori, in particolare dagli studenti universitari. La protesta divampò per le strade e rientrò in seguito alla spietata repressione attuata dal regime. Accusa di brogli e attività degli studenti: vi dice niente?
Sarà solo una coincidenza, è possibile, ma nel caso dell’Egitto non si può dire altrettanto. Qui gli studenti del Cairo hanno adottarono come simbolo della loro lotta il pugno chiuso di CANVAS e dichiararono apertamente di aver avuto contatti con esponenti del movimento studentesco serbo che cacciò Milošević. Sotto la pressione delle piazze, Mubarak è stato costretto a dimettersi, ma la situazione attuale è tutt’altro che chiara. Il presidente egiziano da un giorno all’altro venne appellato dai nostri mass media come “dittatore”, mentre il movimento “6 aprile” si guadagnò le simpatie di tutti i ministri, capi di stato e giornalisti europei e americani. Se le analogie con il caso serbo sono evidenti lo è anche un altro aspetto: in Egitto è stato abbattuto un dittatore che tiranneggiava i suoi cittadini per mezzo dell’esercito. Oggi non c’è più Mubarak ma il potere è nelle mani di quello stesso esercito (che tra le altre cose spara sui copti). Per il momento i rivoluzionari, pur vincitori, non hanno ottenuto un grandissimo risultato.
Anche a Tunisi le proteste vennero dirette da studenti e giovani laureati: la “rivoluzione dei gelsomini” si concluse con la cacciata di Ben Alì, che si dimise il 14 gennaio. In questo caso non c’erano risultati elettorali da contestare, perché la rivolta scoppiò, almeno ufficialmente, per il rincaro del prezzo del pane. Ma oltre alla presenza degli studenti, è il risultato della rivolta a costituire un deja vu: il potere è passato nelle mani dell’esercito. Nei giorni scorsi sono state indette le elezioni, che a quanto pare ha vinto il partito islamico. L’opposizione ha già denunciato irregolarità nel voto. Brutto presentimento…..
Inutile tentare analogie con il caso libico, perché obiettivamente, nonostante la sovraesposizione mediatica, si è potuto capire ben poco. E’ stato tuttavia chiaro sin da subito da che parte stavano i governi e i media occidentali. I ribelli di Bengasi avrebbero dovuto vincere, costasse quel che costasse. Ed è costato caro, sia in termini umani che economici. Le vicende di Tripoli ci insegnano una cosa: in Libia la “rivoluzione” non avrebbe potuto fallire. Per sostituire Gheddafi con i suoi ex fedelissimi si è scomodata persino la NATO. Impossibile tuttavia prevedere gli sviluppi della situazione che, al momento, non pare molto rassicurante. I rischi di una frammentazione territoriale, della nascita di califfati islamici o dell’esplosione di una guerra tra tribù sono concreti. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensano Obama e Sarkozy.
Quanto detto finora non deve essere frainteso. Chi scrive è abituato a lavorare e ragionare con fonti e dati di fatto accertati. Neanche io sopporto il complottismo tanto diffuso ai giorni nostri, special modo in rete, e lo considero nemico di ogni analisi seria e di ogni ricerca storica degna di tal nome. Dico questo perché io non sto affermando che da Belgrado a Tripoli, oltre dieci anni di moti popolari siano stati un’invenzione di oscuri apparati creati ad hoc negli Stati Uniti e in Europa. Vorrebbe dire attribuire ai servizi segreti occidentali un potere che non possono avere. E significherebbe al tempo stesso affermare che i regimi colpiti dalle proteste fossero in realtà molto popolari. L’opposizione a ciascuno di questi governi era (o è) genuina, spontanea, sacrosanta. Ci sono tuttavia troppi elementi per sospettare che su questo terreno fertile, rappresentato dall’impopolarità dei regimi, si possa essere inserito qualche elemento esterno che abbia avuto l’interesse a fomentare la protesta, per poi indirizzarla in un senso piuttosto che in un altro.
L’esistenza di un’”internazionale colorata” è un fatto accertato. I rapporti tra i rivoltosi dei vari paesi anche. L’iraniano Ahmdinejad e il venezuelano Chavez hanno apertamente denunciato il ruolo di CANVAS nella destabilizzazione dei rispettivi governi. La cosa non ha fatto notizia: si sa, stiamo parlando di due pazzi sanguinari. Che guarda caso non sono molto amici dell’Occidente. Riprendessero i tumulti in Iran o ne scoppiassero di nuovi in Venezuela, cosa ci racconterebbero i nostri TG? Ripeterebbero la manfrina della “condanna unanime delle violenze”, che è stata adottata riguardo ai fatti di Londra e di Roma? Ho forti dubbi.
Qualcuno probabilmente avrà già sentito parlare di Otpor e Canvas. Immagino si stia chiedendo perché non ho ancora inserito i simboli dei movimenti che ho citato e di quelli attivi in altre realtà che non ho menzionato. Lo accontento subito.


Otpor - Serbia

Oborona - Russia

Kmara - Georgia
Pora - Ucraina
Zubr - Bielorussia
Movimento 6 aprile - Egitto
Rivoluzione dei gelsomini - Tunisia
Mjaft - Albania
Studenti venezuelani contro Chavez



IL DISSENSO IN OCCIDENTE
Impossibile non tener conto di quanto affermato quando vediamo esplodere, anche in Occidente, imponenti movimenti di protesta. Gli indignati nascono in Spagna e ottengono subito le dimissioni di Zapatero. Non si può parlare di rivoluzione, certo, in un paese democratico il primo ministro, di fronte ad una folla pacifica ma determinata, non dà ordine di sparare sulla folla e si dimette. Sindacati, partiti politici laici e cattolici, studenti, anarchici, semplici cittadini. Un movimento troppo eterogeneo per essere qualificato. Anzi, un termine ci sarebbe: senza leader.
In breve tempo l’eco degli indignati spagnoli conquista gli Stati Uniti: nasce Occupy Wall Street. Giovani e meno giovani, studenti, operai, pensionati. Protestano contro il sistema bancario che ha causato la crisi. E hanno perfettamente ragione. La protesta è assolutamente pacifica, si badi bene: è anche per questo motivo che guadagnano la simpatia dei grandi network (MTV in primis) e dei capi di Stato. Lo stesso Obama, dopo aver salvato le banche con i loro soldi, si schiera con i manifestanti, speranzoso di salvarsi a sua volta dalla prossima sconfitta elettorale. Le star di Hollywood, gli sportivi, gli intellettuali che godono di una certa esposizione mediatica non esitano a dichiararsi solidali con loro.
Mai visto un movimento di protesta che guadagna la simpatia dei propri nemici. Ma soprattutto non si è mai visto un movimento che mobilita un numero molto consistente di cittadini senza avere una guida, una struttura né un programma. Gli indignati spagnoli, come quelli di Occupy Wall Street hanno sì riscosso tante simpatie, ma non si capisce il perché. Non si è capito quali sono le loro proposte, quali obiettivi si pongono, quale “mondo nuovo” vogliano creare per dare speranze al “futuro”. Protestano e basta, educati, colorati e con gli slogan intelligenti.
C’è poi il caso della Grecia, che si trova sull’orlo dell’abisso. Ad Atene però l’indignazione genera bombe molotv, non caroselli festanti. Guarda caso, in TV e nei giornali si guarda alla situazione con evidente apprensione, non con simpatia. I manifestanti non sono carini come quelli di Belgrado, Bengasi o Washington, ma vengono presentati come dei terroristi, alla meglio come dei poveri disperati. Loro non hanno diritto ad essere indignati: il governo che hanno votato sta fallendo e sta trascinando con sé l’Europa intera. Brutti, sporchi e cattivi, avete anche il coraggio di lamentarvi!!!
Ma lasciamo stare la Grecia e torniamo a noi. Prima parlavamo di pugnetti chiusi. 

Logo del movimento Occupy Wall Street
Logo del comitato promotore delle proteste di ottobre
Il banner del loro sito
Sempre loro
Potevano mancare gli spagnoli?
E’ in questa situazione che viene indetta la giornata internazionale dell’indignazione il 15 ottobre scorso, con decine di manifestazioni indette in tutto il mondo. Motivo: far capire agli autocrati della finanza mondiale che noi non siamo disposti a pagare la crisi che loro hanno generato. L’Italia, dove di motivi di indignazione ce ne sono pure troppi, non può fare eccezione.
Veniamo quindi all’Italia. Non devo spiegarvi io che il nostro governo è deriso dal mondo intero. Se Berlusconi ha perso popolarità in Italia, in giro per il mondo (con l’eccezione di Putin) non ne ha proprio. Mi viene da pensare che possa essere proprio la sua vocazione filo-russa un possibile motivo del suo declino. E’ da mesi che la stampa internazionale, in particolar modo britannica e americana, lo attacca non appena ne ha l’occasione. Sia chiaro: lungi da me difenderlo! Mi rendo conto che queste parole suonano sinistramente simili a quelle dei vari Cicchitto o Gasparri. Ma loro lo fanno per difendere il padrone, presentandolo costantemente come vittima di un qualche complotto, domestico o internazionale. Io mi pongo un altro obiettivo e non voglio sprecare tempo e spazio per spiegarvi quanto odio Berlusconi.
Ma c’è un dato di fatto: con Obama il nostro non ha mai avuti i rapporti che aveva prima con Bush. Da quando “l’abbronzato” è alla Casa Bianca, il piduista si è recato molto più spesso a Mosca che a Washington. Come d’incanto, allora, Casini, Fini, poi Scajola e Pisanu si sono accorti che per vent’anni erano stati alla corte del tiranno. Contemporaneamente, in Europa hanno smesso di ridere delle sue barzellette e hanno cominciato a ridere di lui. Gli industriali hanno cominciato a trattarlo non più come uno di loro, ma come un operaio. I sindacati si sono accorti che ha distrutto il mondo del lavoro, e la Chiesa si è resa conto che va a puttane. Magari tra un po’ si rende conto che è anche massone.  Sembra che anche la magistratura lo voglia colpire, dopo aver fatto di tutto per lasciarlo governare, a suon di prescrizioni.
Insomma l’uomo è braccato. Ma non cede, deve resistere il tempo necessario per fare le leggi che lo salveranno dalla galera. Ce la farà? Sinceramente non mi interessa. Quel che mi interessa è aver ben presente che la situazione è questa, nel momento in cui all’indomani dell’ennesima fiducia si trova ad avere a che fare con gli indignati nostrani.
L’antefatto della manifestazione di Roma è la mobilitazione studentesca. Prima nel 2008, con la nascita de l”onda”, in seconda battuta l’anno scorso, gli studenti delle università e dei licei hanno preso in mano l’iniziativa, protestando contro la riforma Gelmini. Già il 14 dicembre 2010 c’erano stati degli scontri piuttosto duri con la polizia e in quell’occasione l’arco parlamentare si dimostrò piuttosto compatto nella condanna dei manifestanti: Fini e Casini, seppur all’opposizione, si schierarono a favore della legge e in tal senso votarono. Il PD e tutte le opposizioni non volevano correre il rischio di essere associati ai manifestanti violenti così, dopo aver cautamente cercato di strumentalizzare la piazza a proprio vantaggio, fecero marcia indietro e rinunciarono a sostenere apertamente le ragioni degli studenti. Tutto secondo copione.
Dopo un anno di pausa la mobilitazione si è riattivata una settimana prima del 15 ottobre, con gli studenti dei licei a fare da padroni della scena. Alla manifestazione degli indignati, indetta dal neonato coordinamento 15 ottobre, aderisce un gran numero di ong, partiti e sindacati, che sarebbe troppo lungo elencare (http://15ottobre.wordpress.com/). Nessuna però in posizione dominante, tutte alla pari: dal popolo viola alla Federazione Anarchica Italiana. Ne consegue che non c’è un vertice organizzativo, né un portavoce, solo un appello contenete una serie piuttosto vaga e ingenua di motivazioni della protesta. Un parziale precedente può essere trovato nel Social Forum nato alla vigilia del G8 di Genova, ma in quell’occasione il movimento aveva comunque dei portavoce (anche se non si é mai capito chi li avesse eletti come tali): Agnoletto, Bertinotti e Casarini.
C’è però un aspetto del quale non ci sono precedenti. I leader politici questa volta hanno fatto a gara a schierarsi con il popolo degli indignati. Gli stessi che avevano in passato bollato ogni attivista contro la globalizzazione come uno sfascia-vetrine e ogni studente come un bambino annoiato che deve tornare tra i banchi di scuola, oggi capiscono, comprendono e appoggiano la massa di chi “è preoccupato per il proprio futuro”. Inutile citare Di Pietro, Vendola e Bersani, che per ovvie ragioni cercano di mettere il cappello alla manifestazione. Fa invece impressione vedere Fini (quello che a Genova passava le mattinate in caserma) e Casini (che un anno fa bocciava i motivi della protesta anti-Gelmini) riconoscere le motivazioni dei precari, dei disoccupati, dei No-Tav, degli ambientalisti. Maroni stesso ha evitato qualsiasi strumentalizzazione affrettandosi a discolpare la sinistra per quanto accaduto. Ma andate a vedere quali sigle hanno aderito alla manifestazione: difficile trovarvi qualcuna che non sia di sinistra. In passato sarebbe stata un’occasione d’oro per mettere sulla graticola tutta la sinistra italiana. Dall’altra parte l’equazione manifestanti-comunisti-violenti l’hanno fatta solo i pitbull di Berlusconi: Cicchitto, Gasparri, La Russa. Curioso: contro gli indignati si sono schierati solo i berlusconiani di ferro, mentre a favore, seppur con varie sfumature, tutti quelli che sono già scesi o stanno scendendo dalla sua barca. E cioè FLI, UDC, Lega Nord. Come se non bastasse, applausi sentiti da parte di Confindustria e Montezemolo, perfino dei tecnocrati Draghi e Trichet. Stare con Berlusconi oggi significa avere tutti contro, dai lavoratori ai poteri forti: sembra molto più conveniente sganciarsi.
Ma torniamo agli indignati: un movimento nato negli ambienti studenteschi, manifestanti di colpo simpatici a tutti, mancanza di leaders, di portavoce, di organizzazione, di programma. Ad essere sincero, al cosa mi puzza parecchio. Se sull’esistenza e l’attività di CANVAS non ci sono dubbi, sarebbe certamente azzardato avanzare ipotesi stravaganti su quanto succede da noi. Sarebbe tuttavia sbagliato, allo stesso modo, escludere a priori l’esistenza di un tentativo di “fabbricazione del dissenso”, espressione coniata non da me, ma da un certo Michel Chossudovsky: http://coriintempesta.altervista.org/blog/occupy-wall-street-e-l-autunno-americano-e-una-rivoluzione-colorata/. In questo articolo troverete altre informazioni e approfondimenti riguardanti quanto precedentemente affermato (a proposito, dimenticavo: Ivan Marovic, ex membro di Otpor, è un attivista del movimento Occupy Wall Street, mentre alla manifestazione di Londra il gran cerimoniere è stato Ivan Assange di Wikileaks…personaggio dai connotati decisamente poco chiari).
Comunque stiano le cose, non bisogna cadere in fantasie cospirazioniste. Da quanto mi risulta è vero che il movimento che oggi protesta contro il sistema finanziario internazionale dà voce alla stra-grande maggioranza della popolazione. Dal tassista la tabaccaio, oggi tutti hanno dei validissimi motivi per essere indignati, se non peggio. Io stesso rientro nella categoria già da qualche tempo. Il mio non vuole essere un atto di accusa contro chi ha preso parte alle manifestazioni o lo farà in futuro. E’ piuttosto un monito: state tutti con le antenne dritte, perché si corre il rischio di incorrere in grosse delusioni. Su internet si leggono commenti di ragazzi entusiasti che intravedono possibili sbocchi rivoluzionari. A loro dico di non sottovalutare il rischio di vedere la propria protesta atrofizzata e portata su binari morti. Rischiereste di prendere le manganellate per far salire al governo Montezemolo? Io sinceramente no.

I NERI 
Veniamo così all’ultima parte di questa mia analisi: il blocco nero. Cioè quella massa che per tre ore ha tenuto in scacco la polizia, la guardia di finanza e i carabinieri a Piazza S.Giovanni e nelle vie adiacenti. Che fossero in trecento, cinquecento o mille, poco cambia. In ogni caso erano tantissimi e parecchio incazzati. Sinceramente non ricordo di aver mai visto in Italia una cosa simile.
L’espressione “black bloc” fa subito correre la mente al G8 di Genova. A distanza di dieci anni, il documentario più valido, dei numerosi che mi è capitato di vedere, si intitola “Le strade di Genova”. Lo trovate anche su YouTube (http://www.youtube.com/watch?v=ag4Hi3sAfIc. E’ diviso in sei parti ma è incompleto, per cui vi consiglio di scaricarlo in quanto non è protetto da copyright). Questo eccezionale documento testimonia un’operazione di “chirurgica macelleria”, tanto perfetta nella sua pianificazione quanto devastante nei suoi risultati. In quell’occasione, il black bloc agì scientificamente contro il corteo, fornendo alle forze dell’ordine il pretesto perché queste caricassero i manifestanti estranei alle violenze. Si trattò di un’operazione portata avanti con una sistematicità che fa rabbrividire.
Ecco che la loro ricomparsa a Roma suscita brutti ricordi e inquietanti interrogativi. Ma soprattutto impone di porsi la stessa domanda che ci siamo fatti riguardo ai manifestanti pacifici. Ma chi sono questi “neri”? Sin da subito, durante la diretta, notai alcuni particolari:
1. Grandissima organizzazione, capacità di movimento e potenza di fuoco.
2.  Presenza di bombe carta e fumogeni: materiale da stadio, più che da manifestazione
Mi sono venuti subito in mente gli ultras delle nostre curve. Nessuno meglio di loro è allenato allo scontro con la polizia (che fronteggiano ogni domenica). Gli ultras si incontrano durante la settimana, preparano gli striscioni e le coreografie, vanno a bere una birra insieme, sono in costante contatto. Insomma sono in grado di organizzare l’attività di centinaia o addirittura migliaia di tifosi. Certamente non sono gli unici a possedere bombe carta e fumogeni in Italia ma, da perfetto ignorante quale sono in materia, se mai me ne servissero mi rivolgerei a loro.
Qualcuno ha ipotizzato la presenza di neofascisti del Blocco Studentesco o di Casa Pound (ambienti per certi versi attigui a quelli delle curve, per lo meno a Roma). Non mi sentirei di escludere a priori neanche loro. Altri hanno paventato l’ipotesi che ci fossero poliziotti o carabinieri infiltrati: mi stupirebbe il contrario. I semplicisti, di destra o di sinistra, hanno creato una categoria monolitica denominata “anarcoinsurrezionalisti” dagli uni e “giovani esasperati” dagli altri. A mio parere è verosimile che a Roma tutti questi soggetti possano aver preso parte agli scontri. Quale componente prevalesse è impossibile a dirsi, ma anche inutile, perché anche qualora solo una delle tipologie citate fosse stata la protagonista di quel pomeriggio, la cosa sarebbe del tutto secondaria.
Quel che conta è che, chiunque fossero, queste persone o ragazzi hanno potuto pianificare una battaglia nei minimi particolari senza essere fermati anzitempo. Provate voi a mettervi d’accordo, tra amici, per pianificare una cosa del genere. Dove credereste di andare? Verreste arrestati prima ancora di uscire di casa. Probabilmente non saranno serviti neppure gli infiltrati, ma di una cosa sono certo: sono stati lasciati fare. Perché una cosa così grossa non la si improvvisa, e non la si può organizzare senza essere beccati.
Uno Stato, che detiene il monopolio della forza è sempre il solo soggetto che può decidere a che livello deve essere portato lo scontro sociale o di piazza. Se i vertici lo vogliono, i poliziotti ricevono l’ordine di caricare anche un corteo pacifico. Se i manifestanti attaccano la polizia con bottiglie e sanpietrini, la polizia può sparare. Se i manifestanti allora scendono in piazza con le pistole, lo Stato risponde con i carri armati. E voi dove li prendete i carri armati? Anche se li trovaste, lo Stato ha i caccia e i bombardieri. Insomma, non esiste piazza che possa competere sullo stesso piano con polizia e forze armate, perché queste sono sempre un passo più avanti di qualsiasi manifestante. Se la battaglia di Roma è stata vinta dai manifestanti, è successo perché i responsabili della pubblica sicurezza hanno deciso così.
Allora bisogna chiedersi: che interesse può avere avuto il governo, o in generale gli apparati, ad incassare una simile sconfitta? L’ipotesi più logica è quella a cui l’italia ci ha abituati da decenni, cioè la strategia della tensione. Destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare quello politico. Dall’”operazione chaos”, riadattata nel 1977 e rilanciata dalle parole di Cossiga nel 2008, questa strategia ha sempre funzionato nel nostro Paese. La gente, impaurita dalla spirale di violenze, fomentate ad arte dai media, si è finora sempre riunita attorno agli apparati statali in cerca di sicurezza e protezione. Che un governo in crisi ricorra a un simile stratagemma per restare in piedi potrebbe stupire solo il ragazzino di 16 anni che a Roma lanciava pietre convinto di “attaccare il sistema”. A supporto di questa ipotesi, la tempestività con cui Di Pietro ha invocato una legislazione più severa, con gran felicità di Maroni (dopo quella del tifoso, introdurrà la tessera del manifestante?). Ecco: lo schema disordini-reazione che si ripropone nella più classica delle sue forme.
Ma forse questa spiegazione, perfettamente logica, non tiene conto di un altro aspetto: il contesto internazionale. La giornata del 15 ottobre è stata una grande festa in tutto il mondo. Da New York all’Australia hanno imperversato le maschere di cartapesta, gli slogan umoristici e i cortei colorati. Solo a Roma si sono verificate le violenze. Siamo così sicuri che sia nell’interesse del governo, già moribondo, mostrare al mondo intero scene da guerra civile? Non credo che Berlusconi abbia piacere a far apparire Roma come il Cairo dell’inverno 2010. Quando vediamo le scene provenienti da Atene tutti diciamo “guarda la Grecia come è ridotta”. So per conoscenza diretta che i parenti di alcuni rumeni residenti in Italia hanno telefonato ai propri familiari invitandoli a tornare in Romania, perché preoccupati di quanto avevano visto in TV. Se hai tutti gli occhi del mondo puntati addosso, l’ultima cosa che devi fare è dimostrare di essere instabile. Non so quanto una “legge Reale 2” valga la candela: se era lì che volevano arrivare gli sarebbe convenuto sfruttare un altro pretesto.
Bisogna infine considerare un altro aspetto: se i movimenti pacifici sono tra loro collegati a livello internazionale, e quella degli indignati va costituendosi come “rete”, non si può escludere che la stessa cosa possa riguardare i blac block. Agli scontri verificatisi in luglio nella Val Susa presero parte anche elementi stranieri; lo stesso Alemmanno, probabilmente per discolpare i romani, il 15 ottobre parlò della presenza di di stranieri tra i manifestanti violenti (sebbene fosse poi smentito da Maroni). Certo sono parole che valgono quel che valgono. Il 17 ottobre, un anonimo black bloc intervistato da La Repubblica (http://www.repubblica.it/politica/2011/10/17/news/black_bloc_piani-23345453/)fece) ha fatto esplicito riferimento a dei rapporti internazionali tra gli esponenti del movimento, riferendosi a “viaggi di istruzione” in Grecia. Certo che una fonte anonima non può essere considerata del tutto attendibile, per lo meno non più di Alemanno e Maroni. Il fatto che tuttavia emerga da più parti l’esistenza di una “connection” internazionale dei disordini deve far pensare. A parte che di vacanze studio in Grecia abbiamo triste memoria in ere non troppo lontane (mi riferisco al corso sulle “tecniche di infiltrazione” nella Grecia dei colonnelli, al quale presero parte avanguardisti e ordinovisti nel 1967) il riferimento alla Grecia è comunque significativo. In quel Paese assistiamo ormai da parecchi mesi ad un crescendo di manifestazioni estremamente violente, nelle quali l’attività dei “neri” è particolarmente significativa. Sempre più frequenti sono ormai gli scontri con i manifestanti pacifici. Pochi giorni fa un sindacalista è morto di infarto durante uno di questi scontri, nei quali uomini vestiti di nero lanciavano molotov sulla folla. Guardate questo video http://video.repubblica.it/dossier/crisi-grecia-2011/grecia-scontri-tra-manifestanti-violenti-attaccano-corteo-pacifico-respinti/78773/77163. Purtroppo non sono riuscito a reperire la versione integrale del video (che avevo potuto vedere in diretta su RaiNews24, nella quale si vedeva meglio la violenza di quell'assalto).
Scene come queste ci fanno capire che il blocco nero è contro la massa dei manifestanti. Seppure ad una intensità decisamente più bassa, qualcosa di simile è accaduto anche a Roma, dove abbiamo potuto assistere alle prime scaramucce tra manifestanti “colorati” e “neri”. Appare sempre più evidente che, da noi come altrove, subito dopo la polizia, nella lista dei nemici dei neri ci sono gli altri manifestanti. In ogni caso il black bloc sta assumendo una forma ben definita: massa compatta, organizzata e preparata in senso “militare” (leggete l’intervista de La Repubblica di cui sopra per capire a cosa mi riferisco), aggressiva a 360°. Se è vero che esistono legami trans-nazionali tra i “neri”, eventuali similitudini nelle azioni da loro compiute a latitudini diverse possono far pensare ad una sorta di “internazionali dei disordini”. Non sarebbe il primo caso nella storia: pensate al “Gruppo Paladin” di Skorzeny o all’Aginter Presse di Guerin-Serac. Si trattava di agenzie specializzate nell’addestramento di mercenari alle quali si potevano commissionare “azioni sporche”, alle quali gli Stati appaltatori non volevano correre il rischio di venire associate. I membri di un commando di questo tipo sarebbero dovuti essere in grado di sparare, usare armi pesanti, maneggiare esplosivi, ma anche conoscere le tecniche di infiltrazione nello schieramento avversario, essere preparati alla guerriglia urbana, essere addestrati insomma alla “guerra psicologica”. Il mercenario perfetto, infatti doveva essere in grado di fare tutto ciò che occorresse: fare un agguato a un oppositore di qualche dittatura sudamericana, sparare con armi anticarro contro i carri armati in Congo, prendere parte agli scontri di piazza a Parigi o a Roma, partecipare alla repressione contro i baschi nella Spagna franchista. Leggete la biografia di qualche terrorista dei nostri anni di piombo se volete qualche conferma. Altri tempo, vero. Ma se questo era possibile negli anni ’60-70, oggi, in seguito alla costante crescita dell’importanza delle compagnie private nei vari scenari di conflitto verificatasi negli ultimi anni, l’errore che potremmo fare non sarebbe quello di ipotizzare l’esistenza di strutture analoghe, quanto piuttosto quello di sottovalutarne la portata.

CONCLUSIONI
E’ provata l’esistenza di una rete di rivoluzionari di professione che, seppur non possano essere in grado di inventare dal nulla un movimento di massa, cercano di inserirsi nel malcontento per incanalarlo nella direzione da loro desiderata, con risultati alterni ma con analoghe metodologie in varie zone del mondo. E’ la rete di CANVAS e delle loro rivoluzioni colorate, i cui strateghi puntano a raggruppare enormi masse che possano far cadere il governo in carica senza ricorrere alla violenza.
Ci sono inoltre gli elementi per ipotizzare un’altra rete, quella dei fomentatori di disordini, i quali invece lavorano affinché le proteste di piazza degenerino in gravi incidenti. E’ quella che ho definito “l’internazionale dei disordini”, la cui esistenza è altamente probabile ma non ancora certificata.
Quello che dovremmo cercare di comprendere sono i rapporti intercorrenti tra queste due entità, cosa che non potremo fare finchè non capiremo chi le tira le loro fila. Può trattarsi di un padrone solo (uno stato o un’agenzia di intelligence) o di più padroni (più stati rivali o alleati, più agenzie, non per forza appartenenti a stati diversi). Solo così potemmo capire quali relazione abbiano, se una serva all’altra o se, come potrebbe apparire, le due reti rispondano a logiche diverse e siano tra loro nemiche.
Ecco. Ho scritto tutto questo non per dare le risposte che il lettore si aspettava, ma per insinuare in lui il sospetto che quanto successo a Roma non nasca in Italia, bensì abbia origine al di fuori del nostro Paese. Si tratta di un’ipotesi, basata su delle esistenze accertate e su ragionamenti logici, che non è assolutamente detto che sia vera. E’ uno schema interpretativo, che invita a rifuggire dalle categorie che vanno per la maggiore, e a non lasciare che l’indignazione di ciascuno di noi possa rivelarsi uno strumento nelle mani del nostro nemico.

Lascio qualche ulteriore link di approfondimento per chi fosse interessato alla vicenda Otpor-Canvas:

http://www.soros.org/    organizzazione che molto spesso viene menzionata in relazione a queste vicende



Articolo particolarmente esaustivo sul ruolo giocato dalle ONG nelle rivoluzioni colorate:
http://www.eurasia-rivista.org/le-rivoluzioni-colorate-in-eurasia/8540/

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