Con le pesantissime
condanne per devastazione e saccheggio inflitte, venerdì scorso, ai
manifestanti che presero parte agli scontri del G8 di Genova nel
luglio del 2001, si può finalmente considerare conclusa quella
tragica pagina della nostra storia recente.
Penso che per la mia
generazione il G8 di Genova sia assimilabile a quanto aveva
rappresentato, per la generazione dei miei genitori, la strage di
piazza Fontana: la perdita dell'innocenza. Uno shock emotivo tremendo,
l'evento che ti catapulta, brutalmente, nella realtà. Il diciottenne
del 2001 capì in quell'occasione che partecipare ad una
manifestazione politica poteva voler dire sputare i denti, finire in
coma o addirittura non tornare più a casa. Improvvisamente, il
ragazzino progressista ed alternativo scopriva che l'impegno politico
non era una partita della Playstation e che quel potere che lui
vagheggiava di abbattere con una “rivoluzione popolare” era di
fatto pronto a passare sopra di lui con l'inesorabilità e la
spietatezza di un carro armato. Io stesso scoprii che la forza delle idee, il dialogo, la capacità di parlare e
ascoltare gli altri erano solo delle favolette con cui ero ero stato educato: Genova
insegnava a me e ai miei coetanei che il Potere è qualcosa di
talmente grande da essere insormontabile, inscalfibile dal tuo solo
coraggio, dai tuoi buoni propositi o dai suoi sogni.
Non partecipai
personalmente alle manifestazioni anti-G8. L'ho tuttavia vissuto
minuto per minuto, nelle dirette televisive durante i due giorni di
scontri e, ancora di più nelle centinaia di ore passate a visionare
documentari, inchieste, filmati negli undici anni successivi.
Per quanto allora mi
definissi in tutti i sensi un “No-Global”, decisi di non andare a
Genova perché alla vigilia era dato per scontato che si sarebbero
verificati degli scontri. Non fu tuttavia la paura a convincermi di
restare a casa, ma la voglia di non essere associato a quelle orde di
autonomi che anziché sfilare marciando in stile Armata Rossa (come sostenevo si dovesse fare), si divertivano a sfasciare le vetrine dei negozi e i
finestrini delle auto in sosta. Anzi, nella mia innocenza, ero
sentimentalmente combattuto: pur con poche e confuse idee politiche,
ero contrario al vertice e alla globalizzazione, ma allo stesso tempo
mi piaceva l'idea che i vandali venissero riempiti di botte dalle
forze dell'ordine. Non fu quindi la paura di prenderle a farmi stare
a casa, ma la vergogna di essere associato ai delinquenti. Questo
perché, nella bambagia in cui ero fino ad allora vissuto, l'idea di
poter essere pestato senza aver fatto nulla non passava minimamente
nella mia testa di diciannovenne. Genova fu quindi un brutto
risveglio, assimilabile per molti versi a quello che ebbero i
sessantottini quando esplose la Banca nazionale dell'Agricoltura a
Milano.
I risvolti, per la
fortuna mia e della mia generazione, furono molto meno pesanti: dopo
Genova il potere decise che non era il caso di riproporre una guerra
civile come aveva fatto negli anni Settanta, quando moltissimi
giovani, intuendo la verità dietro alla strage di piazza Fontana,
avevano dato sfogo alla propria rabbia dandosi al terrorismo, in
questo abilmente fomentati e manipolati da prezzolati agenti
provocatori. Per nostra fortuna, la
rabbia e la voglia di vendetta della mia generazione trovarono altre valvole di sfogo e non fummo indotti a commettere lo stesso errore.
Questa lunga premessa
autobiografica, nella quale qualcuno si riconoscerà, era necessaria
per poter spiegare con quale stato d'animo posso commentare l'evento.
Non ho mai sentito l'odore dei lacrimogeni, non ho mai dovuto
scappare da una carica, i miei amici e conoscenti che erano
stati a Genova tornarono sconvolti ma nessuno di loro aveva subito ferite. Passai tuttavia due giorni di angoscia perché mentre in tv vedevo
la diretta di una carneficina che non si sapeva come sarebbe finita,
i cellulari non funzionavano e non potevo fare altro che restare in
contatto con la madre di un mio carissimo amico per darci conforto
reciproco. Non ero a Genova quindi, ma a modo mio il G8 l'ho vissuto
e resterà per sempre nei miei ricordi.
L'ANTEFATTO
Passati undici anni posso
ormai tentare di trarre un bilancio dell'evento, il più possibile
distaccato. Oggi i No Global sono praticamente spariti a cominciare,
per fortuna, dai loro leader. Io stesso, nel rivedere i filmati
dell'epoca, provo un po' di imbarazzo e non riesco più a sopportare,
come facevo allora, quei numerosi pseudo-hippie del quale il movimento
era infestato, che giocavano coi
fuochi, suonavano i bonghi e, comperti di rasta, parlavano di pace e fratellanza. Anzi adesso li odio proprio. Stessa cosa vale per i
catto-comunisti, i rifondati, i disobbedienti e autonomi vari. Non è
questo il momento di affrontare la questione dei contenuti proposti
dal movimento (potrei farlo in un altro post) del quale oggi critico
l'immaturità e l'incoerenza, ma al quale devo comunque riconoscere
di averci, per molti versi, azzeccato.
Neanche ai fini della mia
analisi avrebbe senso ricomporre i tasselli che costituivano il
mosaico del movimento. La mia deformazione professionale mi porta,
come sempre, a ricostruire sommariamente le tappe e la sequenza
cronologica che trovò in Genova la sua chiosa finale.
Il movimento No Global
veniva anche definito “popolo di Seattle” perché fu proprio
nella città dell'Oregon che fece la sua prima apparizione, durante
il vertice dell'organizzazione internazionale del commercio (WTO), il
30 novembre del 1999. Alle manifestazioni di protesta che
accompagnarono il vertice apparvero, da subito, i black bloc
e ci furono numerosi incidenti.
L'anno successivo, il
movimento contestò il vertice della Banca Mondiale a Praga, quello
tra i ministri delle finanze e i governatori delle banche nazionali
dell'UE a Monreal in Spagna, il Convegno Europeo di Nizza
(nell'occasione alla manifestazione parteciparono 70.000 persone).
Se ognuna di queste
manifestazioni era stata funestata da scontri tra esponenti del
movimento e la polizia, il 2001 segnò una vera e propria escalation
in partecipazione popolare e violenza. In gennaio i No Global
protestarono contro il Forum Economico Mondiale di Davos e diedero
vita al contemporaneo Forum Sociale mondiale a Porto Alegre. In
marzo, circa 20.000 manifestanti si opposero al Global Forum
sull'e-government riunitosi a Napoli, in aprile assediarono i
presidenti delle Americhe in Quebec, a giugno fu la volta di
Goteborg, dove si era riunito il Consiglio europeo.
Man mano che il movimento
cresceva e la protesta era sempre meno estemporanea, gli scontri con
la polizia aumentavano, indipendentemente dal Paese e dal governo che
accoglievano il vertice e il contro vertice di turno.
Già a Praga la
militarizzazione della piazza apparve in tutta evidenza, dato che
9.000 manifestanti vennero affrontati da 11.000 agenti. A Napoli,
quando in Italia era ancora in carica il governo Amato,
le forze dell'ordine attaccarono il corteo preventivamente, prima che
potesse giungere a destinazione, per poi ingabbiare i manifestanti in
piazza del Municipio, dalla quale non avevano via di scampo per
sfuggire alle cariche. A Goteborg, la polizia di un civilissimo Paese
come la Svezia fece cariche a cavallo, lanciò cani-poliziotto contro
la folla e non esitò a sparare: ne fece le spese un giovane, colpito
a bruciapelo alla schiena dopo aver lanciato una
pietra verso i poliziotti.
Questo era quindi il
contesto in cui ci si preparava ad affrontare Genova: un movimento
ampio ed eterogeneo, in rapida ascesa, capace di radunare un numero
sempre maggiore di persone e con sempre maggiore frequenza. I potenti
della terra, fossero presidenti, industriali o banchieri, si stavano dando
un gran daffare per riorganizzare il mondo dopo la fine del
comunismo, cercando di applicare su scala globale i principi del
liberismo. A turbare la loro quiete, un numero sempre maggiore di
persone che aveva capito la fregatura e li tallonava ogni volta che
si riunivano. Bisogna sempre tenere questo aspetto bene in mente, se
si vuole capire cosa accadde a Genova e perché.
LA VIGILIA
L'evento genovese venne
preparato sui giornali e in TV con grande maestria dal nostro governo
e dai suoi giornalisti asserviti. Ma ancor di più, furono gli
apparati preposti alla sicurezza a svolgere un intenso ed
efficacissimo lavoro nelle settimane e nei mesi antecedenti al vertice.
Già nella primavera erano stati lanciati i primi allarmi per quello che
sarebbe potuto accadere durante il meeting di luglio. Gli scontri di
Goteborg avevano contribuito ad innalzare la tensione, che crebbe
incessantemente man mano che ci si avvicinava ai fatidici giorni del
G8. I giornali (tutti, "Corriere della Sera" e "Repubblica" in primis)
riportavano veline dei servizi segreti - in particolare del Sisde -
che preannunciavano scenari apocalittici.
Qualche esempio. Si disse
che alcuni medici, collegati al Social Forum, stessero raccogliendo
dagli ospedali sacche di sangue infetto che i manifestanti avrebbero
poi lanciato contro le forze dell'ordine. Oppure che questi ultimi
stessero facendo incetta di elicotteri radiocomandati che, riempiti
di esplosivo, sarebbero stati scagliati contro gli agenti. Ancora, il
lancio di frutta con dentro lamette da rasoio, di pneumatici
incendiati da far rotolare o di pit-bull sguinzagliati nella caccia allo sbirro. La stampa
locale diede grande risalto alla notizia che a Genova erano state
fatte arrivare 500 bare, mentre la BBC, meno allarmista, parlò solo
di 200 sacche da morto. A completare il quadro, un provocatore patentato
come Casarini che con sguardo truce e insopportabile cadenza
dialettale veneta leggeva, circondato da uomini in passamontagna e
telecamere di tutto il mondo, una “dichiarazione di guerra ai
potenti della Terra” nella quale annunciava la demenziale
intenzione, sua e degli idioti che gli andavano appresso, di violare
la Zona Rossa.
In una Genova che veniva
sempre più militarizzata e svuotata dei suoi cittadini, comparvero
ovviamente auto sospette e furgoni abbandonati. La Fai non poteva
esimersi dal partecipare alla festa, e inviò qualche plico esplosivo
con cui ferì, come al solito, qualche addetto alla posta e qualche
segretario. Allo stesso tempo, i telegiornali riportavano
continuamente notizie di arresti di elementi facinorosi, provenienti
da tutta Europa, e del sequestro di materiale atto ad offendere.
Che il contro-vertice
sarebbe stato un disastro, era ormai dato da tutti per scontato. Ma
prima di Genova, centinaia di migliaia di persone restavano convinte
in buona fede che lo scontro tra guardie e ladri non li avrebbe
riguardati, perché loro non facevano parte né degli uni né degli
altri.
I FINI GIUSTIFICANO I MEZZI
Una ricostruzione delle
tre giornate di Genova non avrebbe senso. Su internet (basta YouTube)
avete a disposizione tutti i filmati possibili ed immaginabili. Non
serve quindi che sia io a spiegarvi della presenza di infiltrati
delle forze dell'ordine nel corteo, dell'impunità garantita ai black
bloc, lasciati liberi di devastare la città, delle cariche a freddo
contro cortei inermi, delle autoblindo lanciate a sessanta all'ora
contro i manifestanti sui marciapiedi, della morte di Carlo Giuliani,
del massacro della Diaz, delle torture a Bolzaneto....
Do per scontato che
queste scene le abbiate già viste. Ancora oggi, vedere un medico
senza i denti e con la testa rotta fa ribollire il sangue. Stessa
cosa dicasi per le scene in cui dieci carabinieri si accaniscono con
calci e manganelli su di una persona immobilizzata a terra. Sono anni
che le vedo e le rivedo, e mi fanno male ancora.
Do per scontato anche che
siete al corrente di come si è mossa la giustizia da un lato, e di
come si sono mossi i corpi “di sicurezza” (polizia, carabinieri,
guardia di finanza) al loro interno. Ne riparlerò più avanti.
Quel che mi preme, è qui
esprimere l'idea che mi sono fatto riguardo alla strategia che a
Genova venne messa in atto. Dopo anni di informazione e
contro-informazione, sono giunto alla conclusione che Genova è stata
teatro di un'operazione ben precisa, ricalcata sull'orma di quanto
fatto nel “piano Chaos”, lanciato in Europa dalla Cia nel 1963.
La più classica, cioè, delle manovre “false flag”, solo che qui
è stata portata a dei livelli di raffinatezza e perfezione mai visti
prima.
Mi spiego meglio. Chi ha
organizzato e gestito l'ordine pubblico a Genova ha ottenuto
perfettamente quello che voleva. Perché suddetta gestione era
finalizzata proprio ad ottenere il massimo dei disordini.
La psicologia della
folla, si sa, è semplice. Di fronte alla violenza indiscriminata ed
ingiustificata, anche la persona più mansueta è portata a reagire
violentemente. Chi di voi, sceso pacificamente in corteo, sarebbe
stato in grado di mantenere la calma, dopo essere scappato da un
blindato che lo voleva investire, o dopo aver visto un proprio amico
o la propria fidanzata venire massacrati di botte senza motivo
alcuno?
Ma proviamo ad entrare
nella camionetta. Dopo diciotto ore ininterrotte di servizio, ferito,
con la temperatura a 40°, senza neanche la possibilità di pisciare,
con pietre, bottiglie e molotov che vi piovono in testa, chi di voi
sarebbe in grado di controllarsi al momento in cui arriva l'ordine di
caricare?
Ovviamente per rispondere
dovete mettervi nei panni di un 19-22enne, perché questa era la
fascia d'età in cui rientravano la stragrande maggioranza sia dei
manifestanti che dei poliziotti.
La prima valutazione che
viene da fare è proprio questa: in una città che era la meno adatta
per controllare un evento del genere, si è fatto di tutto perché la
situazione scivolasse di mano, dando ordini di cariche assurdi (come
quello di via Tolemaide, assurdo ed inquietante allo stesso tempo,
perché evidenzia la presenza di una doppia catena di comando) da un
lato, e lanciando giovani inesperti in età di leva contro i
manifestanti dall'altro.
Giovani inesperti in età
di leva appunto, che si trasformarono presto in belve feroci. Certo,
la tensione, la paura e molto spesso anche una connotazione
ideologica di destra (diffusissima tra polizia e carabinieri) possono
spiegare in buona parte la brutalità con cui le forze dell'ordine di
ogni corpo si accanirono contro i manifestanti. Ma non possono
spiegarla del tutto. A mio parere va aggiunto anche un altro aspetto.
Abbiamo parlato della preparazione mediatica del G8 sui giornali e le
Tv. Nessuno, tranne i diretti interessati, può però sapere cosa è successo
nelle caserme e nelle questure nei mesi e nelle settimane precedenti.
Lo possiamo però immaginare. L'assassino impunito di
Carlo Giuliani, Mario Placanica, in una intervista dichiarò che
prima del vertice i suoi superiori avevano con grande insistenza
ripetuto a lui e ai suoi colleghi che da Genova non tutti sarebbero
tornati a casa, perché ad attenderli avrebbero trovato migliaia ci
persone che li volevano morti. Certo, Placanica rappresenta un caso
clinico, ma non per questo la sua testimonianza perde valore. O per
lo meno, obbliga a chiedersi: quale tipo di clima venne instaurato
tra le nostre forze dell'ordine alla vigilia dell'evento?
Migliaia e migliaia di
ragazzi e ragazzini, molti dei quali ancora di leva, pochi con
esperienza di gestione dell'ordine pubblico (ed in quei pochi casi limitata agli stadi), soggetti al lavaggio del
cervello dei propri superiori, intimoriti da quanto stava accadendo.
Aggiungiamo, magari, anche un po' di droga, in particolare cocaina, che
- a giudicare dalle espressioni di alcuni agenti immortalati in certi
video - molto probabilmente scorreva a fiumi nelle caserme e nelle
questure. Avrebbero potuto comportarsi diversamente?
Questo non è un
tentativo di assolvere gli agenti dalla loro responsabilità. E' al
contrario un pesantissimo atto d'accusa ai vertici, che per reprimere
il movimento No Global, hanno utilizzato migliaia di giovani italiani
come carne da macello, terrorizzandoli, probabilmente drogandoli,
buttandoli allo sbaraglio nella mischia e mettendoli nella condizione
di trasformarsi in potenziali assassini.
Il tutto con la perfetta
consapevolezza che in quella situazione, grazie ai loro ordini scellerati, avrebbero perso la testa.
Mettiamo quindi assieme
infiltrati professionisti, agenti impreparati ed impauriti,
manifestanti incazzati e spaventati, una catena di comando incerta (o
meglio, mai chiarita) e ordini di cariche ingiustificate. Il
risultato è stato il massimo del disordine e non poteva essere altrimenti.
I MEZZI NASCONDONO I FINI
Chi ha pianificato
Genova ha agito, dicevo, con grande raffinatezza ed ha stabilito una
scaletta degli obiettivi da raggiungere. Le devastazioni dei black
bloc, le cariche e i violenti scontri per le strade miravano a creare
i presupposti per raggiungere quello che era lo scopo principale,
ovvero la distruzione del movimento, che a Genova avrebbe dovuto
trovare, come infatti trovò, la propria tomba.
Si può parlare di due livelli di tale annientamento. Il primo era quello fisico. I
manifestanti andavano massacrati di botte, torturati, impauriti e,
magari, uccisi. L'irruzione alla Diaz e le torture alla caserma di
Bolzaneto misero emblematicamente in mostra la sicumera di chi,
celerini, secondini e aguzzini vari, potevano contare su delle palesi
garanzie di impunità. Non si trattava più di combattimenti di
strada, nei quali gli agenti possono perdere la testa, ma di
repressione scientifica, studiata a tavolino, furiosa ma mirata, fisica e psicologica.
Il secondo livello sul
quale fu deciso di operare per distruggere il movimento No Global era
quello mediatico. Tv e giornali, così solerti nel compiere il
proprio ruolo di zerbini del potere nelle settimane antecedenti,
diedero un'ulteriore dimostrazione di dove sono in grado di arrivare,
regalandoci un assaggio di quanto avrebbero poi fatto in seguito agli
attentati dell'11 settembre. Nelle prime ore, le dirette televisive
erano dominate dalla cronaca rosa dell'immancabile Caprarica: si
parlava del pranzo dei potenti, del vestito della first lady e di
altre amenità simili, mentre le strade erano in fiamme.
Successivamente, gli inviati cominciarono a riportare gli eventi, parlarono di scontri violentissimi e di una minoranza di agitatori che
nulla centravano con il corteo. Sembrerà assurdo, ma rivedetevi i
filmati d'archivio: lo facevano anche sulle reti Mediaset. Poi però
Berlusconi, nella prima conferenza stampa dopo la morte di Giuliani,
affermò che il Social Forum nella sua interezza era colpevole delle
violenze in quanto a suo dire aveva coperto i black bloc. Da quel
momento cambiò tutto. I giornalisti da allora non fecero più alcuna
distinzione tra i manifestanti, riportarono le veline delle questure
come se fossero il Vangelo, evitarono accuratamente di mandare in
onda i pestaggi delle forze dell'ordine, si soffermarono
esclusivamente sulle devastazioni delle tute nere.
Un'operazione grandiosa,
grazie alla quale il termine “No Global” divenne per la
maggioranza degli italiani sinonimo di terrorista. Per dieci anni non
più fu lecito criticare il sistema politico, economico e finanziario
internazionale o la globalizzazione senza venire associati agli
incappucciati che avevano devastato Genova. Dopo i disordini e la
repressione, un'altra missione compiuta.
I COLPEVOLI
Ma chi sono i
responsabili di quanto avvenuto a Genova? Direte voi: “un governo
fascista ed una polizia fascista che hanno sospeso per tre giorni la
democrazia e lo stato di diritto in Italia.” Brave suorine
democratiche, non avete capito nulla.
Continuate ad attribuire
a Berlusconi o ai suoi scagnozzi un'importanza che non hanno mai
avuto. E allo stesso tempo vi indignate che dopo undici anni ci siano
condanne pesantissime ai manifestanti mentre siano molto leggere
quelle inflitte ai poliziotti oppure, come fa “La Repubblica”,
arrivate addirittura ad esultare per queste ultime, che sarebbero la
dimostrazione di come il vento sia cambiato da quando Berlusconi ha
lasciato la presidenza del Consiglio.
La verità è che le condanne ai poliziotti
sono ridicole, perché nessuno di loro farà un giorno di galera e
perché vengono dopo dieci anni di promozioni a pioggia. Lo stesso
Manganelli, che oggi chiede scusa alle vittime, ha fatto carriera con
il G8, mentre De Gennaro, cattivo capo della polizia sotto Berlusconi, è oggi sottosegretario nel buon governo Monti. La magistratura italiana ancora una volta non si è lasciata
scappare l'occasione di dimostrare la propria sudditanza al potere
politico: per i nostri giudici sfasciare delle vertine è molto più
grave che mandare in coma una persona o addirittura ucciderla, come
nel caso di Sandri, Cucchi, Aldovandri. Se poi sei un carabiniere,
per carità, la giustizia sommaria ti assolve dall'accusa di omicidio
senza neanche processarti. Capisco che per voi queste ingiustizie non
siano “degne di uno stato democratico”. Continuate pure ad avere
fede nello Stato, nelle istituzioni, nella Costituzione. Aggiungete anche una preghierina e vedrete che
queste spiacevoli vicende non si verificheranno più.
Non raccontiamoci balle. Le forze dell'ordine, a
Genova, non hanno fatto altro che eseguire gli ordini. Per questo
motivo i loro membri sono stati premiati dai propri corpi di appartenenza, in primis, e
dalla magistratura in seconda battuta. Molto più colpevoli dei
poliziotti e dei carabinieri che hanno manganellato, sono i loro
vertici. Ma i loro vertici sono guidati dalla politica. Ecco allora
che ci avviciniamo: perché la temeraria magistratura italiana, così
risoluta nel guardare sotto la gonna della maestra in occasione del
“Ruby Gate”, non ha chiamato Berlusconi a rispondere del suo
operato, per lo meno come persona informata sui fatti, in quanto
primo ministro e personale organizzatore della sicurezza del G8?
Perché Fini - e con lui Mantovano - si vantava di essere all'interno
del comando operativo nelle giornate in questione, senza che per
questo abbia dovuto rendere conto a nessuno? Se a Scajola non
avessero regalato una casa “a sua insaputa”, l'ex ministro degli
interni avrebbe mai avuto guai con la giustizia? Ma l'Italia è così.
Se vi chiamate Castelli, oltre a diventare ministro della giustizia
con un laurea in ingegneria, potete anche aggirarvi impunemente tra
le stanze del carcere di Bolzaneto durante le torture e farne pure vanto. Non vi
succederà nulla. Se poi siete addirittura Antonio Martino, tutti si
dimenticheranno che i carabinieri sono un corpo militare, dipendente
da ministero della Difesa, e che del loro operato (cioè di centinaia
di feriti, di cariche con i blindati e di un morto) voi dovreste essere i
responsabili.
MA COME, CE NE SONO ALTRI?
In questo contro-processo qui improvvisato contro i responsabili di quanto avvenuto a
Genova, non si può lasciare da parte quanti hanno concorso al
reato. Quando Violante affermava in aula, dopo la morte di Giuliani:
“piena solidarietà alle forze dell'ordine”, non commetteva forse
apologia di reato? Manganelli subito dopo le condanne ai poliziotti
ha chiesto scusa alle loro vittime; noi siamo ancora in attesa che
Violante chieda scusa agli italiani.
Indimenticabile, poi, il
trio Fassino-Vespa-Casarini a “Porta a Porta”. Il primo, che
coglieva l'occasione dell'uccisione di Giuliani per invitare gli
aderenti al suo partito a tornare a casa senza partecipare alla
manifestazione del sabato (peccato, sarebbero state le uniche
manganellate che avrebbero avuto una giustificazione), prendendo le
distanze dall'intero movimento e lasciando il campo libero alla
repressione. Vespa, che durante la diretta lustrava le scarpe a Fini (sì, lo stesso che
oggi a sinistra è venerato come temerario e coraggioso oppositore a
Berlusconi). Casarini, autoelettosi portavoce di una parte del
movimento (per poi tentare senza successo una carriera parlamentare), che fomentava la rabbia e la frustrazione di una piazza già
sufficientemente massacrata. Se non avesse incitato alla violazione della Zona
Rossa, fornendo così il destro per poter caricare a freddo un
corteo di migliaia di persone autorizzato solo a metà, le cose sarebbero forse andate diversamente e Carlo Giuliani sarebbe probabilmente ancora vivo.
Per lo meno le forze dell'ordine avrebbero dovuto inventarsi qualche altro espediente per scatenare la guerra civile.
Quelli che andavano appresso a Casarini erano dei ragazzini. Lui no. Pagato o
meno, è stato un efficientissimo provocatore.
E poi ci sono Feltri,
Fede, Belpietro, Caprarica, Gad Lerner (non dimentichiamoci le sue
dirette) e tutto l'apparato televisivo italiano, che oltre ad aver
fatto un torto alla propria professione, dovrebbe rispondere di
apologia del reato.
...COSA? ALTRI ANCORA?????
Li abbiamo elencati quasi
tutti, ma sul banco degli imputati manca quello principale.
Il giornalista inglese
Mark Covell, fuori dalla scuola Diaz, è stato mandato in coma dagli
agenti, che gli hanno rotto le costole e perforato un polmone. Per le
strade, così come nella stessa scuola Diaz o a Bolzaneto, decine di
giovani stranieri, fossero inglesi, tedeschi, francesi o spagnoli hanno subito
percosse e violenze ingiustificate quanto efferate.
E' famosa la denuncia
fatta da Amnesty International, che affermò solennemente: “la più
grave sospensione dei diritti umani e bla bla bla”. Bravissimi e
coraggiosi. Un po' meno solenne tuttavia la denuncia del governo
inglese, di quello francese, tedesco o spagnolo. Molto pacati furono i Chirac, gli Shroeder, gli Aznar e i Blair quando seppero che alcuni propri cittadini si trovavano negli ospedali
italiani o peggio, a distanza di giorni erano letteralmente scomparsi perché ostaggi a Bolzaneto, dove
non avevano contatti con l'esterno e dove veniva loro negato il
diritto ad avere un avvocato. Ve lo ricordate? Un silenzio
indimenticabile, il loro, tanto fu assordante.
Viene quindi da pensare
che gli altri governi abbiano fatto omertà nella repressione contro i No
Global. Questi andavano massacrati e non difesi: se non fosse così, non si spiega come mai le varie cancellerie non presero le difese dei propri concittadini, e di come si siano ben guardate dal protestare formalmente contro l'Italia. Ma se le diplomazie non si mossero, lo fecero le Sante istituzioni comunitarie come, ad esempio, la Corte europea dei diritti umani di
Strasburgo. Quella che solo qualche settimana fa ha assolto il
governo italiano dall'accusa di essere responsabile della morte di
Carlo Giuliani. Se ci si limita a considerare l'episodio in sé (due
ventenni che si ammazzano a vicenda) la sentenza è comprensibile: se
Placanica ha sparato perché impaurito non può essere colpevole
l'Italia tutta. Però se si inserisce il tragico incidente nel
contesto in cui è maturato, risulta un po' più difficile da
spiegare l'assoluzione del nostro Paese anche sull'accusa di non aver
organizzato e pianificato in modo adeguato le operazioni di polizia
durante il summit. Solo l'Ue è riuscita a negare la realtà di un fallimento che gli stessi ministri italiani erano stati costretti ad a ammettere.
MORALE DELLA FAVOLA
Concludiamo. Appare ormai evidente che è stato un potere ben più grande del
solo, servile, governo italiano ad aver deciso di annientare il
movimento No Global. L'operazione preparatoria, a cominciare dalle
manifestazioni precedenti, è stata chirurgica. A ridosso del G8, i
servizi di tutti i Paesi hanno fatto affluire i manifestanti
provocatori da ogni dove, fornendo rapporti fasulli a quelli
italiani, che a loro volta hanno rincarato la dose di fantasia e
soffiato a dovere nelle nostre fanfare mediatiche, affinché la
psicosi, tra i manifestanti e negli stessi corpi polizieschi,
raggiungesse l'apice. Durante il summit, dei continui corto-circuti
nella catena di comando hanno contribuito a far degenerare la
situazione. E', questa, un'altra conferma del ruolo di primo piano
dei corpi di intelligence: le gerarchie dei servizi segreti non
seguono quelle dei corpi ufficiali, per cui può capitare, ad
esempio, che nelle operazioni segrete un colonnello dia ordini ad un
generale. Ricordatevelo, quando sentite le intercettazioni tra i comandi, nelle quali i graduati non si sanno spiegare come mai i propri
inferiori abbiano fatto partire delle cariche senza ricevere da loro
ordine alcuno.
Quella che doveva essere
l'opposizione ha fatto il resto. Da un lato ha agito secondo modalità
pilatesche (Fassino e i Ds), dall'altro ha contribuito a fomentare la
tensione (Casarini, Caruso et similia). All'indomani, si è poi
divisa tra vergognosi apologhi di reato come Di Pietro, opportunisti
come Violante (che ebbe addirittura il coraggio di deporre un mazzo
di fiori in Piazza Alimonda) e tanti, tantissimi ipocriti. Come
quelli che hanno continuato a urlare contro “Berlusconi fascista”,
dimenticandosi che a Napoli avevano agito allo stesso modo quando al
governo c'erano loro, o come quelli che oggi celebrano il sermone
“giustizia è fatta”, esultando per le ridicole condanne inflitte
alle forze dell'ordine. E che non hanno il coraggio di far notare la
sproporzione tra una condanna a dieci anni per chi ha sfondato una
vetrina e quella a due anni per chi si è macchiato di lesioni gravi
e gravissime.
Dopo undici anni, Genova
fa ancora paura. Fa paura perché offre uno squarcio di cosa sia in
grado di fare il potere, che non è un poliziotto in divisa o un
ministro incravattato. E' qualcosa di molto più grande, che riesce a
mettere in campo uno schieramento mediatico, spionistico, militare,
politico e giudiziario, con il quale nessun movimento di piazza, per
quanto consapevole, ampio e partecipato possa essere, è minimamente in grado di confrontarsi.
Genova ci ricorda che al
di sopra dei nostri governi, siano di destra o di sinistra, ci sono
livelli di dominio ben più elevati, che dei nostri governi si
servono a tutela dei propri interessi, con la sicumera di chi può
fare affidamento su di un cane da guardia tanto fedele quanto feroce.
Genova, inoltre, ci
ricorda che la nostra magistratura non ci darà mai giustizia, perché
è sempre stata e rimarrà prona al potere politico ed ai corpi di
polizia, ai quali non torcerà mai un capello, mentre con gli
oppositori non esiterà ad essere inesorabile e spietata.
Genova, per tutti questi
motivi, ci riporta con la mente alla vicenda di piazza Fontana, e con
essa a tutte le altre stragi di Stato: uno Stato privo di ogni
dignità ed indipendenza, timido e riverente con i potenti ma feroce
nello scagliarsi contro i propri cittadini indifesi, inflessibile nel
punire i propri nemici, beffardo nell'auto-assolversi. Voi la
chiamerete “democrazia incompiuta”. Io la chiamo semplicemente democrazia.
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